EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON

Cappello Dell'Alpino

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON

Cari lettori, eccoci giunti ad un nuovo appuntamento con la rubrica “Eroi senza memoria”,

Un appassionante percorso storico tra le più drammatiche pagine delle guerre e delle battaglie che hanno caratterizzato per lunghi anni il nostro continente europeo ed anche tanti altri teatri operativi di battaglie di chi in precedenza ho trattato approfonditamente le arie fasi nei passati articoli.

La mia prosegue in modo costante, sempre con la collaborazione del collega Tenente William Rossi, che continua ogni giorno a donarmi ossigeno, una trasfusione di emozioni condivise che fanno scattare le mie dita sulla tastiera nei momenti di pausa dal mio lavoro. Un prezioso archivio di notizie reperite in rete e presso le principali Associazioni Combattentistiche, come ho già scritto in precedenza.

In questo periodo di immobilità causato da un incidente stradale che ho avuto in moto il 2 Maggio, queste magiche parentesi in cui posso rendere omaggio ad Uomini di Onore che hanno dato tutti se stessi fino a donare la loro vita alla Patria, mi rende felice perché il solo ricordo da tramandare in rete non solo è un piacevole scrivere ma un dovere morale di consegnare ai lettori un piccolo contributo per soffermarsi, prendersi una sana pausa dai social, leggere con attenzione ed isolarsi dal frastuono assordante di una vita che ci massacra già abbastanza, ma noi oggi siamo dei privilegiati perché il massacro vero lo hanno subito questi giovani innocenti che hanno dato solo fede al loro Giuramento. Che Dio ci perdoni per non onorarli a sufficienza.

Quindi ancora oggi un sentiero emozionante nella memoria, per comprendere il contesto, le cause, le evoluzioni e i Reparti coinvolti, per poi andar a leggere pagine scritte direttamente dai soldati sul fronte.

Oggi scriverò nuovamente della Battaglia di Nikolajewka, ma non approfondirò molto di più di quanto ho scritto in un precedente articolo intitolato Eroi Senza Memoria – Tutti erano Fratelli dove appunto avevo parlato in dettaglio di quella Battaglia. Pubblico il link dove dopo aver letto questo articolo potrete andare a leggere il precedente dove ho trattato più nei dettagli il tutto. Ecco il link:

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON

Vorrei piuttosto approfondire altri aspetti di quella Battaglia in questo racconto:

“Viene il 26 gennaio 1943, questo giorno di cui si è già tanto parlato. È l’aurora. Il sole che sta sorgendo dal basso orizzonte ci manda i suoi primi raggi. Il biancore della neve e il sole abbagliano gli occhi. Abbiamo con noi dei panzer tedeschi».

I panzer tedeschi sono una pessima compagnia, ma quel giorno, a Nikolajewka, a tentare di uscire dalla sacca in cui li avevano chiusi le truppe sovietiche, insieme a Rigoni Stern c’erano anche migliaia di alpini che in quel momento avevano in testa un solo obiettivo: tornarsene a casa, «arrivare a baita».  

Per Giuanin, uno dei personaggi più commoventi de «Il sergente nella neve» era divenuta una giusta e sacrosanta ossessione. «Ogni volta che gli capitavo a tiro mi chiamava in disparte, mi strizzava l’occhio e sottovoce mi chiedeva: – Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?. Perché lui era certo che io sapessi come sarebbe andata a finire la guerra, chi sarebbe restato vivo, chi morto e quando. Così io rispondevo con sicurezza – Sì Giuanin, ghe rivarem a baita – Secondo lui dovevo sapere anche se avrebbe sposato la sua ragazza”.

Ma Giuanin,  giovane falegname delle valli bergamasche, non è tornato a casa, è morto sulla neve mentre trasportava munizioni. Come il cappellano militare, come Moreschi, come Raul, il primo amico della vita militare di Rigoni, ventiduenne che voleva diventare ragioniere.

Morto a Nikolajewka mentre «andava all’assalto su un carro armato e saltando a terra si prese una raffica». Non sono «tornati a baita» nemmeno il Generale Martinat, il Colonnello Calbo, Pintossi e Rino, il falegname di Asiago compagno d’infanzia di Rigoni rimasto ferito durante un attacco nessuno è riuscito più a saperne nulla. «Sua madre è viva solo per aspettarlo» – scrive Rigoni nel «Sergente nella neve».

Sono migliaia gli alpini morti per aprirsi una via verso casa in quel gennaio del 1943 come sono migliaia i soldati russi che hanno perso la vita per difendere la propria terra. La conta è praticamente impossibile ed andrebbero aggiunti quelli che sono morti prima di Nikolajewka.

Come Marangoni, la sua salma è tornata in Italia solo un paio di anni fa: «un ragazzo era, anzi un bambino. Rideva sempre, e quando riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in alto: è la morosa, – diceva. E ora anche lui è morto. Una mattina smontato, all’alba, era salito sull’orlo della trincea a prendere la neve per fare il caffè e vi fu un solo colpo di fucile. Piombò giù nella trincea con un foro in una tempia». Rigoni, tornato sul Don a decenni di distanza, ritrovò la gavetta di Marangoni in un pollaio.

Di quelli che sono tornati alcuni sono ancora vivi, hanno tutti superato gli ottant’anni e più anni hanno loro e più anni hanno perso gli altri, quelli rimasti sulla neve russa. Anni che significano figli e nipoti, soddisfazioni e dispiaceri in un’Italia non più fascista e non più povera.

Il Tenente Nelson Cenci, nato a Rimini, studente di medicina arruolatosi volontario negli alpini, partì per la Russia nel luglio del 1942. La guerra non gli fece perdere le abitudini di casa: «aveva una tana tutta bianca scavata nel gesso.

C’erano dentro un lettino ben rifatto, con le coperte pulite e senza una grinza, un tavolo con sopra una coperta da campo, alcuni libri, e il lume a petrolio che pareva un soprammobile.

Vicino all’entrata, in una nicchia, una fila di bombe a mano rosse e nere parevano fiori. Presso il lettino, appoggiato alla parete, il moschetto lucido: accanto a questo l’elmetto sospeso ad un chiodo. Per terra non vi era un filo di paglia o una cicca».  

Ferito a entrambe le gambe il 26 gennaio, riuscì a rientrare in Italia con un treno ospedale. Nel dopoguerra si è laureato in medicina, si è sposato ed ha avuto due figlie. Primario otoiatra a Desio, dal 1972 al 1979 divenne professore incaricato di Clinica Otorinolaringoiatria all’Università di Varese. Nel 1980 incominciò a dedicarsi alla letteratura e alla poesia. Quella dedicata a Nikolajewka « … Non più aspre terre e profili di monti nei loro occhi di vetro, ma lunghe file mute di uomini su sentieri di ghiaccio. La pista si è fatta di stelle e cristalli di luna si spengono/ su misere croci senza nome»  è tra le preferite dagli alpini. Ora sta a Cologne Bresciano, nel Franciacorta a produrre vino.

Ha trasformato un casolare del ‘600 in una elegante residenza di campagna, considerato quello che ha fatto con la tana in Russia non poteva che riuscirgli un ottimo lavoro.

«Sono finito in campagna – racconta – perché dopo la guerra ha avuto da mangiare chi aveva un pezzo di terra. Buono per vivere e per farsi seppellire. Ho sempre visto il lato positivo delle cose ed esclusa la parentesi militare, penso di aver vissuto una bella vita. Sono più pessimista adesso, ma sarà l’avanzare degli anni».

Ha 85 anni ma non devono essere quelli che lo rendono pessimista, il piglio sembra essere ancora quello di Nikolajewka. Ha appena pubblicato un libro «Non sei solo» sulla vita negli ospedali, vista dagli occhi del medico e da quelli di un paziente.

Anche Aldo Buogo, è tornato a baita. Livornese, classe 1918, è protagonista insieme a Cenci di uno degli episodi più belli narrati nel «sergente» di Rigoni.

«Sentimmo Buogo che chiamava: Cenci! Cenci! Tenente Cenci! E Cenci, dal suo caposaldo, gridare :Buogo! Di’, Buogo ! come si chiama la tua fidanzata? -E ripeteva : Come si chiama la tua fidanzata? Buogo disse un nome. Mi misi a ridere assieme agli alpini che erano con me. Il nome di una donna, di una fidanzata, il nome italiano di una ragazza gridato casi nella notte mentre sparavano i mitra russi e i moschetti italiani! Di’, Buogo, come si chiama la tua fidanzata? Buogo! Buogo! Come si chiama?

E gli alpini ridevano. Diavolo ! Chissà che bella ragazza era, e morbida, ed elegante. Altro non poteva essere la fidanzata di un tenente, e così pareva anche dal nome. Immaginavo i due tenenti a farsi le confidenze nella tana guardando le fotografie. Ma un nome gridato così nella notte! Avevo capito perché Cenci voleva sapere il nome della ragazza. E tutti quelli che avevano sentito ridevano. Anche i russi di certo dovevano averlo capito. Diavolo! Piantiamo qui tutto, ci sono tante belle ragazze e vino buono. Loro hanno le Katiuscie e le Maruske e la vodka e campi di girasole; e noi le Marie e le Terese, vino e boschi d’abeti».

Buogo venne ferito il 16 gennaio, preso prigioniero e spedito in Siberia. Tornò solo nel luglio del 1946. Ripresi gli studi di Biologia all’università di Pisa, venne assunto come ricercatore in una grande azienda farmaceutica. Successivamente prese la libera docenza in Microbiologia alla Statale.

Dal 1951 vive a Milano con la moglie «avevo dimenticato la parola d’ordine perché cambiava ogni ora “  ricorda oggi Buogo.

“Cenci mi chiese il nome della fidanzata per verificare che fossi realmente io”. Ma di quegli anni preferisce non parlare.

Dello stesso plotone di Rigoni hanno fatto ritorno a casa anche Angelo Turrini e Cristoforo Moscioni, uniti dalla guerra e rimasti amici per decenni.

Turrini, nato nel 1916 a Sabbio Chiese, in Valsabbia, è morto nel 1995. “Era un montanaro che ha fatto molti lavori prima di partire per la Russia, dall’operaio al minatore in Piemonte (racconta oggi il figlio Gian Battista). Aveva fatto il servizio militare nel 1936/37 ed è stato richiamato in servizio con lo scoppio della guerra. Prima della campagna di Russia era già stato in Albania.

La vita lo aveva già temprato a sopportare molti disagi e forse fu proprio questo a riportarlo a casa. L’8 settembre 1943, con tutto il suo reparto venne consegnato dai superiori ai tedeschi e trascorse più di due anni nei lager tedeschi e polacchi.

Ha Conosciuto mia madre durante la guerra e l’ha sposata. Hanno avuto due figli maschi. Poi ha lavorato alla Falck fino al 1974. Ai figli non ha mai raccontato molto della guerra, un po’ di più ai nipoti che ascoltavano i suoi racconti come fossero favole. A Nikolajewka ha stretto una grande amicizia con Moscioni che riportò ferito nelle retrovie e con cui rimase amico anche dopo la guerra”.

Così, grazie ad Angelo Turrini anche il tenente Moscioni è tornato a casa.

Nato a Pesaro nel 1918, si laureò in legge e scienze politiche prima di partire per la Russia, dove venne ferito due volte. Dopo l’8 settembre entrò nella Resistenza poi si aggregò agli inglesi e combatté nel 2° battaglione del 7° Gurka Rifles. Dopo la guerra prese la laurea in medicina e incominciò a pubblicare testi di memorie sulla guerra.

Nel 1980 ha pubblicato  «La linea gotica». Ne ha regalato una copia a Turrini, con questa dedica: «ad Angelo, con viva amicizia e sempre ricordando Nikolajewka, quando lui, da solo, rimase indietro, sparando gli ultimi colpi del suo moschetto per salvarmi la vita». Dopo la pensione si è trasferito nel Sussex e se ne sono perse le tracce.

Anche il tenente Giobatta Danda ha combattuto tra i partigiani, quelli di Giustizia e libertà. Nato a Chiampo nel 1921, stava studiando ingegneria prima di essere arruolato. Partito per il fronte russo venne ferito alle braccia il 30 gennaio del 1943 e rimpatriato.

«Il giorno peggiore – ricorda oggi – fu quello del primo combattimento del settembre 1942. Faceva meno freddo ma la battaglia fu durissima, peggio di Nikolajewka. Io venni ferito alla coscia e tornai al reparto dopo due mesi di ospedale». Finita la guerra si è laureato ed è diventato dirigente industriale del gruppo Marzotto. È andato in pensione nel 1999, ora vive a Vicenza.

Fu costretto a scelte differenti il Maggiore Enrico Bracchi, nato a Sondrio nel 1898: “cappello in testa, scarpe Vibram, sigaretta in bocca, gradi di banda sulle maniche del pastrano, il passo sicuro, occhi azzurri e voce che infondevano serenità». Lo racconta il figlio Enrico Junior, oggi a Bressannone “mi arrestarono i tedeschi e lui per evitare che mi fucilassero fu costretto ad arruolarsi nelle file della Repubblica di Salò. Era un militare di carriera, volontario nella prima guerra mondiale, passò poi negli alpini a comandare il Vestone”. Decorato con sette medaglie d’argento, tre per Nikolajewka, è morto nel 1973.

Nello stesso anno tornava sul Don, a trent’anni dalla battaglia Rigoni Mario di Giobatta n.15454 di matricola, Sergente Maggiore del 6° Reggimento Alpini, battaglione Vestone, cinquantacinquesima compagnia, plotone mitraglieri, impiegato del catasto divenuto grande scrittore.

Da quel viaggio Rigoni trasse “Ritorno sul Don» ideale seguito de «Il Sergente nella neve”.

A chiedergli oggi di isolare un’immagine dei giorni della guerra decide di raccontare proprio del Maggiore Bracchi «che salutava sull’attenti ogni caduto, italiano o russo che fosse. Amico o nemico». Grande UOMO ancor prima di MAGNIFICO SOLDATO.

Di un altro Alpino, «tornato a baita», pur gravemente ferito, Rigoni ci rivela solo il nome di battesimo, Giuseppe. Ferito alle gambe e al ventre, Rigoni se lo caricò in spalla e lo trascinò fuori dal tiro delle armi dei russi. «Ho saputo in Italia ch’egli si era salvato – scrive Rigoni – e un gran peso mi è caduto dal cuore.

Lo ritrovai un giorno, finito tutto, a Brescia. Non lo riconobbi, ma lui mi vide da lontano, mi corse incontro, mi abbracciò.  – Non ricordi sergentmagiù?. Io non lo riconoscevo e lo guardavo – Non ricordi? – ripeteva, e si batteva con la mano sulla gamba di legno. – Va tutto bene ora. E rideva. Non ricordi il 26 gennaio? Allora mi ricordai e tornammo ad abbracciarci con tanta gente attorno che ci osservava senza capire»

,,,,,,,,,,un piccolo tributo, a quegli Alpini che con le loro sofferenze ed il loro sangue, permisero a tanti altri di tornare a “baita”.

Sono circa 2.500 Alpini caduti, dispersi e reduci della “CUNEENSE”, con i quali voglio idealmente ricordare tutti gli Alpini. Molti, sono ricordati esclusivamente dai loro cari e sconosciuti ai più, solo perché non hanno ricevuto una medaglia o non erano Comandanti…… ma erano lì!

Leggeteli tutti:

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I CADUTI NON MUOIONO SUI CAMPI DI BATTAGLIA… MA QUANDO SONO DIMENTICATI!

LEGENDA:

(cd)= Comando divisionale e servizi dipendenti:

(1)= 1° Rgt. Alpini;

(c)= Btg. Alp. “Ceva”;

(pt)= Btg. Alp. “Pieve di Teco”;

(m)= Btg. Alp. “Mondovì”;

(2)= 2° Rgt. Alpini;

(b)= Btg. Alp. “Borgo San Dalmazzo”;

(d)= Btg. Alp. “Dronero”;

(s)= Btg. Alp. “Saluzzo”;

(4)= 4° Rgt. Art. Alpina;

(gm)= Gr. Art. Alp. “Mondovì”;

(v)= Gr. Art. Alp. “Val Po”;

(p)= Gr. Art. Alp. “Pinerolo”;

(IV)= IV° Battaglione misto genio;

(bc1/bc2/bc)= I° Btg. complementi/II° Btg. Cpl./in forza a Btg. Cpl;

(cc1/cc8)=14^/ 84^ compagnia cannoni c/c 47/32;

(a2/a4/a0)= 201°Autoreparto misto div./4° Autodrappello per div. alpina/autiere div.;

(rs2)= 2° reparto salmerie divisionali;

(ss1/ss2)=21^ Sez. salmerie del 1° Rgt. Alp./22^ Sez. salmerie del 2° Rgt. Alp;

(cr3/cr4)= 413^ Sez. alpina Carabinieri Reali/414^ Sez. alpina CC.RR.;

(h1/h2/h06/h0)=1^ Sez. sanità 1° Rgt Alp./ 2^ Sez. sanità 2° Rgt Alp./ 306^Sez. sanità divisionale/ in forza alla sanità divisionale;

(h12/h15/h13/h14/h16/h17/h0)=612° Osp. da campo 1° Rgt./ 615° Osp. da campo 2° Rgt./ 613°, 614°, 616° e 617° Osp. da campo divisionali/in forza alla sanità divisionale;

(su1/su2/su7/su3/su0)=1° nucleo sussistenza 1° Rgt Alp/2° nucleo sussistenza 2° Rgt Alp/107^ Sez. Suss. divisionale/63^ squadra panettieri forni Weiss div./in forza alla suss. divisionale;

Ove non indicato, trattasi di Alpini per i quali ho trovato la generica dicitura di : in forza alla “CUNEENSE”.

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON

 RACCONTI

(dei combattenti del Btg. “Tirano”)

Tenente Arturo Vita (Fronte russo)

L’allarme era scattato alle tre e mezzo del mattino dopo che per tutta la notte si era susseguita la violenta sparatoria verso l’estremità sud-ovest di Nikitowka; tra le isbe cominciano a piovere sempre più frequenti i colpi di mortaio mentre un gruppo di partigiani, al riparo di alcuni muretti diroccati, inizia un intenso fuoco contro gli alpini che si stanno radunando al centro dell’abitato. Oggi il battaglione Tirano è all’avanguardia della lunga colonna in ritirata e muove con le compagnie nel seguente ordine: 46a-49a-C.C.T.-109a A.A.-48a; in coda, la teoria delle slitte con a bordo i feriti, i congelati e le poche armi ancora efficienti. Infiliamo la pista che conduce a Nikolajewka, che dopo aver descritto un’ampia curva intorno al paese, sale lentamente alla selletta di Arnautowo, piccolissimo abitato costituito da una ventina di misere isbe. La testa della colonna si trova a circa 400 metri dal valico allorché viene improvvisamente investita da una violentissima scarica di mortai, prendendo così alla sprovvista gli alpini che cercano protezione in un vicino boschetto di betulle; i colpi si susseguono sempre più precisi e possiamo facilmente individuarne la provenienza: in parte da Arnautowo e in parte da macerie al limite dell’abitato, dunque alle nostre spalle! Il comandante del battaglione Tirano, Taccagno, non esita ad inviare un reparto col compito di snidare questi franchi tiratori arroccati ancora a Nikitowka, quindi ordina al plotone esploratori della 46a, alla guida del sottotenente Perego, di eseguire una ricognizione alla selletta di Arnautowo: le restanti compagnie devono nel frattempo serrare i ranghi, ricostituirsi e prepararsi al combattimento. I cannoni da 47/32 della 109a vengono sollecitati a più riprese dai portaordini ma non riescono purtroppo a farsi strada causa la pista sconvolta dai morti e feriti, dalle slitte rovesciate e dai muli imbizzarriti. Viene infine ripresa la marcia ed arrivati ad un modesto pianoro, Taccagno, che nel frattempo ha ricevuto notizie allarmanti da Perego circa la forza del nemico che occupa saldamente il valico, impartisce l’ordine di attacco alle compagnie del battaglione. La 46a deve dunque schierarsi al centro e sulla destra della selletta alle spalle di quattro isbe diroccate, la 49a sulla sinistra mentre la compagnia comando viene spinta sulla destra con il compito di operare un largo movimento aggirante sul fianco dell’avversario che continua a far fuoco con mortai e cannoncini a tiro rapido. Sentiamo lanciare rauchi “Hurrah…” ed ecco i russi avanzare sulla destra della selletta, ma le mitragliatrici e le bombe a mano della 46a li fermano decisamente sul ciglio estremo. La temperatura si mantiene sempre assai rigida e col passare del tempo la situazione non accenna a migliorare: a due Breda si è congelato l’olio e neppure il fuoco acceso al riparo di un’isba riesce a sciogliere quel blocco di ghiaccio; anche un mitragliatore, al centro della linea, tace di colpo, alcune bombe a mano non riescono a scoppiare nella soffice neve. I feriti, adagiati accanto a due muretti, invocano aiuto… Accanto alle isbe di Arnautowo, ove il Tirano sta combattendo la battaglia per la salvezza dell’intera colonna in ritirata, una trentina di artiglieri del gruppo Bergamo, morti congelati ed abbracciati ai loro pezzi, nelle pose più drammatiche e tragiche, restano i muti testimoni dell’eroismo dei loro fratelli alpini! Così è finito per questi oscuri artiglieri il tragico combattimento della notte innanzi, i cui echi, da noi tutti che stavamo a Nikitowka, erano stati perfettamente uditi. Veniamo intanto informati che Perego è caduto e che il capitano Grandi, comandante la 46a, è ferito gravemente: la furia del combattimento si è frattanto spostata sulla sinistra della selletta, investendo in pieno la 49a. Sulla neve, carponi, ecco che mi si avvicina il portaordini Robustelli con un messaggio di Taccagno: raggiungerlo subito per comunicazioni. Lo trovo poco dietro, accanto al Colonnello Adami, comandante il 5° alpini, ambedue preoccupati e pensierosi. Mi affida il comando della 46a, ordinandomi di fare affluire in linea uomini e munizioni nonché di rafforzare le nostre posizioni. I russi infatti stanno ora decisamente attaccando sulla sinistra della selletta, ma la “49a di Dio” non molla neanche un metro di terreno: la neve è rossa del sangue delle “penne nere” che, le dita incollate sulle mitragliatrici, sparano a zero contro il nemico che avanza. “Non si cede…!” questo è il grido degli alpini che viste incepparsi due armi automatiche si buttano al contrattacco; nell’azione che segue cadono da prodi, alla testa del reparto, il capitano Briolini, comandante la 49a, i tenenti Nicola e Soncelli, mentre a terra resta gravemente ferito il tenente Calvi. La sparatoria non dà requie, la 46a e la 49a sono rimaste quasi senza munizioni, i russi non accennano ad alleggerire il loro impeto: è un momento molto critico per tutti ma finalmente vediamo arrivare i primi rinforzi sotto forma di reparti della 109a e della 48a che a fatica riescono a piazzare due mortai da 81 e due cannoni da 47/32 iniziando un tiro rapido contro l’avversario: era proprio ora! Vado a trovare Grandi in una delle isbe adibite ad infermeria: il tenente medico Taini scuote la testa. L’addome è forato in più parti e quasi nulle sono le speranze di poterlo salvare: si era lanciato con due bombe a mano contro una ridotta russa, ma una sventagliata di parabellum lo aveva subito inchiodato al suolo, nel suo generoso tentativo di distruggere quel centro di fuoco che teneva sotto tiro la postazione del tenente Darè. Accanto a Grandi i corpi dilaniati di Perego, di Torelli e di tanti alpini. Tutt’attorno si accatastano i feriti in un clima di gelo polare, in una allucinante confusione di urla, di grida e di invocazioni: i due medici ben poco possono fare, esaurite come sono da tempo le scarse dotazioni sanitarie. Mentre la C.C.T. prosegue nel suo movimento aggirante, ecco entrare in azioni due cannoni da 75/13 di un nostro gruppo di artiglieria divisionale nonché la squadra mitraglieri della 48a. Il caos delle retrovie non aveva permesso ai rinforzi di uomini e alle grosse bocche da fuoco di raggiungere la selletta in tempo utile; così il Tirano, basandosi unicamente sulle proprie forze, aveva dovuto sostenere tutto da solo il peso del tremendo combattimento ed immolarsi, con quasi metà dei propri effettivi, per aprire la via per Nikolajewka alla colonna in ripiegamento. I morti e i feriti infatti non si possono contare tanto il terreno è disseminato di alpini, tragiche macchie scure sulla bianca neve sconvolta dalla furia della battaglia. Il fuoco nemico, sulla sinistra della selletta, accenna ora a smorzarsi e ne approfitta tutta la 48a, comandata dal tenente Piatti, slanciandosi all’inseguimento del nemico che abbandona armi, munizioni e lasciando sul terreno anche decine di caduti. La 46a, la 49a e la 109a si fermano invece alla selletta di Arnautowo per riordinare i reparti superstiti e provvedere al carico sulle slitte dei tantissimi feriti: verso le dieci del mattino, la colonna può riprendere la marcia in direzione di Nikolajewka, sulle orme di quell’amorfa massa di sbandati di tutte le nazionalità e specialità, che, spettatori imperturbabili del combattimento senza mai prestare alcuna forma di collaborazione o di assistenza, non avevano esitato, al termine dell’azione, a scavalcare il nostro battaglione, passando tranquillamente con le loro slitte e i loro muli sui cadaveri ancora caldi dei nostri alpini caduti in combattimento… Ben fece Giudici, valoroso sergente della 46a, che imbracciato il mitragliatore aprì rabbiosamente il fuoco contro quelle centinaia di soldati, senza vergogna ne pietà… Carichiamo Grandi su una slitta, avvolgendolo nelle coperte intrise di sangue: è ancora vivo, respira faticosamente scosso dai brividi, sembra quasi voglia sorridermi quando gli dico: “Forza, Grandi, coraggio…” ma si vede che stenta a tenere gli occhi aperti. Il tenente De Minerbi gli accarezza il viso e gli alpini continuano a mormorargli: “Forza, signor capitano, ce la farà…!”. Grandi scuote la grossa testa avviluppata nel grigio passamontagna incollato alla barbaccia dal gelo di questi giorni, ma ci accorgiamo che le nostre parole non vengono comprese. Ad un tratto, però, lo sentiamo sussurrare: “Tirano… mai tardi!…”. poi, dopo un attimo di silenzio, accenna ad intonare le prime parole della famosa e nostalgica canzone: “Il capitano l’è ferito…”. È un momento di profonda commozione per noi presenti… Giudici e Clementi a voce bassa continuano la strofa “…l’è ferito e stà per morire …” ma non riescono più a continuare: scossi dai singhiozzi piangono come bambini! Muti e silenziosi seguiamo la slitta sulla quale ci pare che Grandi continui tristemente a sorridere…

E così la colonna dei superstiti riprende la sua dolorosa marcia mentre il freddo sempre più intenso paralizza le nostre membra e tortura i poveri feriti ammucchiati nelle slitte. Gettiamo un ultimo sguardo a quella tragica selletta , tomba del battaglione Tirano, con gli occhi velati da lacrime: ovunque cadaveri di alpini irrigiditi dal gelo della steppa. Quanti magnifici eroi di quella gloriosa giornata che la tragedia della guerra ci obbliga purtroppo ad abbandonare e lasciare in balia del nemico, senza neppure il conforto di una piccola rozza croce: rimasero lassù ad Arnautowo, soli, uno accanto all’altro, riversi sulla neve chiazzata di rosso, accanto alle loro armi che fino all’ultima cartuccia avevano sparato contro il tenace avversario! I pochi alpini del battaglione Tirano, circa 200 uomini della 46a della 49a e della 109a , raggiungono verso le 14 di quel 26 gennaio, dopo aver attraversato l’intera piana, il bastione di fronte a Nikolajewka: la 48a , al termine del combattimento di Arnautowo, aveva proseguito nel proprio slancio accodandosi al battaglione Edolo mentre la C.C.T., rientrata dal suo brillante aggiramento, era stata inviata dietro ordine di Adami a riforzare un altro battaglione del 5° alpini. Un’immensa colonna di uomini e di slitte è ora ferma sulla neve, immobilizzata dalla violenta reazione di fuoco proveniente dalla linea ferroviaria che corre proprio di fronte all’abitato: ha così inizio il secondo tragico combattimento della giornata, l’ultimo del nostro ripiegamento, quello che avrebbe però dovuto decidere della salvezza di decine di migliaia di soldati. In quella bolgia di uomini laceri e spossati, sotto i colpi di mortaio che dove cadevano sicure erano le vittime, andiamo a cercare il collegamento con il comando del 5° alpini e col battaglione Edolo. Veniamo così a sapere che i battaglioni Val Chiese ( T.Col Chierici) e Vestone ( Magg. Bracchi) del 6° alpini (Col. Signorini) stanno attaccando sotto un fuoco infernale lo sbarramento russo: il nemico, abbarbicato al terrapieno della ferrovia e alle numerose isbe, in posizione predominante, può facilmente battere con il tiro rapido delle sue armi i nostri reparti che tentano l’avvicinamento alle rotaie. Diversi colpi di mortaio provocano ancora vittime fra gli alpini del Tirano, la cui colonna è sempre ferma in attesa di ordini… Anche i micidiali “Rata” scendono a mitragliarci da bassa quota, passano e ripassano lanciando fra noi spezzoni incendiari: ma ecco due slitte prendere fuoco e i muli, avvinti alle stanghe e impazziti dal terrore, si slanciano col loro carico in una folle corsa abbattendo gli uomini che incontrano sul loro tragitto. I feriti dalle slitte chiedono aiuto, urlano per un sorso d’acqua, implorano il medico: purtroppo quello che si poteva fare è stato fatto e non abbiamo assolutamente nulla per dare a questi nostri fratelli un sia pur minimo conforto materiale. Vedo passare il cappellano padre Corsara che si avvicina alle slitte per portare la sua parola di rassegnazione; anche padre Tonidandel, irriconoscibile nella coperta che lo avvolge, si adopera per assistere i tanti feriti. Ma finalmente riusciamo a raggiungere la 48a: siamo sulla sinistra dell’abitato, accanto all’estremo sottopassaggio della ferrovia, mentre alla destra, vicino a un mucchio di macerie, è arroccata la compagnia comando: quest’ultima compagnia aveva già respinto un attacco russo ma era riuscita, dopo un eroico contrattacco, a ristabilire le posizioni. Il suo comandante, tenente Alessandria, impartisce gli ordini da una slitta ove giace gravemente ferito al volto e mi comunica l’eroica morte del giovane sottotenente Slataper che, slanciatosi all’assalto del nemico e colpito per due volte in pieno petto dalla mitraglia, aveva trovato la forza di gridare agli alpini del suo plotone nel suo inconfondibile dialetto triestino: “Dài fiòi… forza Quinto… Viva l’Italia…!”.

Sottotenente   Slataper Giuliano

5° Rgt. Alpini Btg. “Tirano” Compagnia Comando

Medio Don-Arnautowo (fronte russo) 9 settembre 1942-26 gennaio 1943 Caduto sul campo

Sten. Slataper Giuliano

“I  russi stanno intensificando la loro sparatoria e gettano nella battaglia tutto il peso delle loro artiglierie; con i pochi alpini rimasti della 46a mi avvicino sempre più all’abitato, infilandomi in un cuneo sulla destra del sottopassaggio: vedo alcuni reparti ondeggiare avanti e poi indietro, poi scorgiamo un forte reparto russo saltare giù dal terrapieno della ferrovia e venire fatto letteralmente a pezzi dalle armi della 48a. Calano le ombre della sera, il freddo è davvero pungente! Mentre il fuoco aumenta di potenza, ecco il battaglione Edolo sfilare sulla nostra destra unitamente ad un battaglione del 6° alpini: si stanno dirigendo verso la curva della ferrovia, aspramente contesa ma ancora terra di nessuno. Vedo correre Novello che urla: “Di là è la salvezza, alpini! Di là vi è l’Italia! Forza “veci” del Quinto…” ed ecco che si formano plotoni e reparti, si improvvisano squadre, tutti concorrono a questo estremo generoso sforzo, dal generale all’ultimo alpino; è sufficiente possedere ancora un fucile, una bomba, una baionetta, e via! all’assalto dell’ultimo ostacolo, oltre il quale, ci dicono, ci sia davvero la salvezza. Disorientati ed attoniti i russi abbandonano lentamente le difese più avanzate: la piana di Nikolajewka risuona di urla e di grida, sono i soldati di tutte le nazionalità che si slanciano all’assalto del terrapieno superandolo di slancio, cadono, si rialzano, manovrano, poi come belve piombano sul nemico: ciò che importa è di fare presto! La 48a è magnifica nella sua azione, ma il suo comandante, tenente Piatti, alla testa degli alpini, è fermato di colpo nella sua corsa da una scarica di parabellum che lo inchioda all’uscita del sottopassaggio. Tutti si sono messi ora in moto, anche le slitte, che entrano di corsa nel grosso borgo per procurare al più presto un tetto e un po’ di calore al loro carico di sofferente umanità. Sono quasi le venti, è già buio fitto, allorché raggiungiamo il centro di Nikolajewka, in preda ad una confusione che mai nessuno avrà la forza di descrivere nei suoi reali termini. In un’isba semivuota faccio scaricare le slitte dei feriti: cosa mai possiamo fare per questi poveretti? Tanti purtroppo sono spirati nel corso della giornata, altri, intorpiditi dal gelo, respirano a fatica, stretti in una morsa di ghiaccio. Grandi è ancora vivo, balbetta qualche parola ma non ne comprendiamo il significato: gli occhi sono chiusi, trema per tutto il corpo. Il tenente medico Taini mi consiglia di non muoverlo ma di lasciarlo tranquillo. Alle due di notte, ecco giungere l’ordine di immediata partenza, mentre su Nikolajewka ricominciano a cadere colpi di mortaio: accelero al massimo le operazioni di carico dei feriti sulle poche slitte rimaste, i cui muli, per nostra fortuna, hanno trovato magro sostentamento nella paglia dei tetti delle isbe e parecchi di essi sono ancora in grado di tirare il loro prezioso carico. A pochi chilometri fuori dell’abitato mi avvisano che Grandi è spirato. Mi avvicino alla sua slitta e sollevo la coperta che lo avvolge: dorme in pace, ha il viso sereno. Ad un centinaio di metri di distanza mi indicano i muri di un’isba semidistrutta: lo adagiamo sul terreno gelato dopo averlo ricoperto di un soffice strato di neve candida. Addio per sempre, nostro valoroso comandante, la tua lunga giornata terrena volge al termine. È il 27 gennaio 1943. E si riprende l’estenuante marcia in direzione di Uspenka, quell’incredibile marcia che sta sospesa fra l’umano e l’irreale, un piede avanti all’altro, l’automatismo naturale del passo, quasi una tortura il doverli posare sulla coltre lucida e gelata che nega persino il conforto di un sorso d’acqua. Fermarsi, anche per un solo istante per riprendere fiato, significava entrare insensibilmente nell’immobilità statuaria che solo il primo tepore a primavera avrà il potere di sciogliere e di scomporre. Avanti, avanti verso ovest, perché solo in quella direzione sappiamo esserci la salvezza per tutti noi, la nostra “baita”, la nostra Italia tanto lontana”.

Cap. Grandi Giuseppe

M.O.V.M. Capitano s.p.e. Grandi Giuseppe 5° Rgt. Alpini Btg. “Tirano”

C.te 46ª Compagnia

Quota 228,quota 226,7- Belogorny-Arrnautowo (fronte russo) 9 settembre 1942-gennaio 1943 Caduto sul campo

Russia, 20 gennaio 1943. Il comando del 5° alpini, con in

testa il comandante Col. Giuseppe Adami, esce da Skororib.

Col. Manfredi Luigi

M.O.V.M. Colonnello Manfredi Luigi Comandante 1° Reggimento Alpini

Fronte russo 17-28 gennaio 1943

Caduto sul campo

La Bandiera di Guerra del 5° Rgt. Alpini

La BANDIERA DI GUERRA del  5° RGT. Alpini.

In testa il Comandante Col.  Giuseppe Adami,

Alfiere Ten.  Mario Gariboldi

Storie sul Battaglione “MORBEGNO” 5° Rgt – Divisione TRIDENTINA

S.ten Nerio Bianchi

Sottotenente in s.p.e. (servizio permanente effettivo) dal 22 marzo 1942, fu destinato il 6 luglio successivo al Battaglione “Morbegno” (5° Alpini, Divisione “Tridentina”) con il quale partì per la Russia il 20 luglio 1942. Da un suo breve e scarno intervento, pubblicato su “Nikolajewka : c’ero anch’io” sappiamo che faceva parte della 45a compagnia, con la quale conquistò una Medaglia d’Argento al valor militare “sul campo”, la cui motivazione esprime, senza bisogno di ulteriori commenti, le qualità umane e militari di Nerio Bianchi :

“Ufficiale comandante di plotone fucilieri e poi di esploratori di un Battaglione alpino impegnato in duri combattimenti difensivi ed offensivi, ha dimostrato in ogni circostanza alto spirito del dovere, forza di carattere, coraggio e sprezzo del pericolo. Incaricato con i suoi esploratori di annientare elementi nemici che si erano infiltrati nelle nostre linee, otteneva un brillante risultato catturando prigionieri e armi. Dopo quattro giorni di lotta sanguinosa e tragica, durante un difficile e durissimo movimento di ripiegamento, benchè ferito trovava ancora la forza morale e fisica di respingere con pochi uomini e poche armi un ennesimo attacco nemico rimanendo, nell’eroica azione, gravemente ferito per una seconda volta. Il suo atto eroico permetteva alla colonna di raggiungere la salvezza.

Giovanissimo ufficiale ha dimostrato di possedere in modo superlativo magnifiche virtu’ di soldato e di uomo”.

Fronte russo, gennaio 1943.

Nerio Bianchi tornerà………….diventerà GENERALE di Corpo d’Armata

M.O.V.M

Capitano Briolini Franco 5° Rgt. Alpini Btg. “Tirano” C.te 49ª Compagnia

Arnautowo (fronte russo) 26 gennaio 1943

Caduto sul campo

Capitano Briolini Franco

Tenente Ferroni Gino 6° Rgt. Alpini Btg. “Val Chiese” 255ª Compagnia

Nikolajewka (fronte russo) 26 gennaio 1943

Caduto sul campo

Tenente Ferroni Gino

In quello stesso giorno la 45a batteria della

nostra Compagnia fu impegnata in un sanguinoso combattimento contro i russi in una valle.

Di fronte all’enorme preponderanza delle forze

nemiche, soprattutto allo scorazzare dei carri armati, il capitano Vinco

lanciò un grido ai suoi soldati: ‘Si salvi chi può! Chi ha coraggio

rimanga con me’. Dopo di che, si piazzò in faccia al nemico con una

mitragliatrice con la quale fece in tempo a dare alcune sventagliate

prima di cadere tra i soldati che erano rimasti al suo fianco”.

Racconterà il sottotenente Franco Forlani:

“Era giorno, non so quale

ora, quando arrivammo in vista di Nikolaievka. Si trattava di un grosso

paese al di là di una balka molto ampia. Un terrapieno, su cui passava la

ferrovia, ci divideva dal paese, dal quale numerosi cannoni sparavano

senza sosta sulla colonna che, come fiume in piena, stava dilagando sulla

piana antistante. Contemporaneamente gli aerei russi, prendendoci di

traverso o per il lungo, mitragliavano senza sosta. La sera si stava

avvicinando quando arrivò l’ordine di avanzare e raggiungemmo la ferrovia

con l’ultima luce del giorno, passando in mezzo a montagne di cadaveri.

Erano i morti del Verona, del Vestone, del Val Chiese: alpini del 5° e

del 6°, artiglieri del 2°, tutti insieme lanciati all’ultimo disperato

attacco. Stanchi, affamati, pieni di freddo, più automi che uomini,

dovemmo sollevare le slitte che portavano i feriti, per superare i binari

sopraelevati”.

In quella leggendaria giornata del 26 gennaio 1943, caddero eroicamente migliaia di alpini di ogni grado:

“cadde il generale vicino all’alpino, cadde il

colonnello vicino al capopezzo, cadde il capitano con il mitragliere,

cadde il medico mentre alleviava le sofferenze dei feriti, cadde il

cappellano segnando innumerevoli croci con largo gesto benedicente”.

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

EROI SENZA MEMORIA – I SOPRAVVISSUTI DEL DON ONORI!

Non mi sento di aggiungere altro, attonito, commosso, stordito dal fragore di quelle bombe, di quegli urli soffocati dal dolore, addolorato, afflitto, turbato e forse anche un po’ irritato perché di questi Eroi Senza Memoria non si scrive più sui libri di Storia.

Non ho certamente la pretesa di essere io a scrivere pagine di Storia, ma sono solo il tramite di testimonianze vere chiuse in chissà quali cassetti e mi conforta che sul web dove tutto è possibile trovare rimangano queste testimonianze, ma sussurrate, senza orpelli o parole troppo ricercate; con la delicatezza e il rigore di tramandare le gesta ed il valore di questi Soldati.

E questa volta il mio motto non lo voglio urlare scrivendolo in maiuscolo, ma con ugual rispetto lo vorrei sussurrare…..

Credo e vinco….

Onori a tutti i Caduti, gli Eroi Senza Memoria

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2 Risposte
  1. Davide

    Un saggio,questo. Complimenti a te ed al contributo sempre prezioso del ten.Rossi.

    Il personaggio di Giuanin ed il tenente Nelson Cenci mi sono rimasti particolarmente impressi,due sorti diverse in un dramma.
    Ambedue desideravano tornare a casa da quell’inferno,il primo non ce la fece,il secondo divenne addirittura un importante medico ,a seguito del rientro in Patria e del recupero!

    Scorrere quella lunga lista di caduti è davvero un pugno,le scellerate scelte di allora portarono persone valorose in operazioni di guerra avventate che costarono un prezzo di vite umane immane…
    Il nostro paese è da sempre contro le guerre,così come i nostri militari ( a differenza di altri contingenti) non sono mai stati visti in modo ostile nelle missioni del Ministero della Difesa.

    Quanto accaduto ai tempi delle guerre non deve più ripresentarsi ,mai come oggi è di attualità.
    Nei piani alti dei nostri apparati militari abbiamo elementi di intelligence,graduati altamente preparati e soldati specializzati che sono al servizio della difesa del nostro paese.

    Un pensiero per tutti coloro che sono caduti nelle guerre e grazie per il tuo blog