EROI SENZA MEMORIA – COLONNELLO PAOLO CACCIA DOMINIONI

Eroi Senza Memoria - Il Colonnello Paolo Caccia Dominioni

EROI SENZA MEMORIA – COLONNELLO PAOLO CACCIA DOMINIONI. Cari Lettori, eccoci approdati nel mio Blog con un nuovo articolo della rubrica “Eroi Senza Memoria”. Come continuo a definire io, questo è un percorso straordinario che mi sta permettendo di stimolare la mi innata curiosità sulla storia di questi grandi Eroi Senza Memoria che hanno costruito nel tempo, con il loro estremo sacrificio, pietra su pietra il nostro solido Paese.

Continuo a credere che ci si debba soffermare un po’ di più a leggere queste “pagine di memoria” della nostra grande Nazione che non è seconda a nessuno i termini di Cultura, di Patriottismo, Senso di appartenenza, fratellanza, di ospitalità e di tutte quelle qualità e valori tra i più alti che si possano trovare nel nostro piccolo globo terrestre che ha visto però grandi Uomini camminare e percorrere la loro vita con un alto senso del dovere ed una abnegazione fuori dal comune.

Devo sempre ringraziare il mio fratello William Rossi che mi sta donando ogni giorno un archivio meraviglioso di notizie, di foto inedite e difficilissime da trovare che stanno corredando questi miei articoli facendoli diventare un racconto illustrato; come sfogliare un bel libro in tranquillità ed immergersi in una sana lettura evocando quei tempi e soprattutto ricordando con estremo rispetto chi ha lasciato questo pianeta con Onore. Questa volta vorrei salutare William in modo goliardico come ci siamo salutati qualche sera fa “Ciao Puffo” Ma adesso torniamo seri.

Ho scritto sempre al plurale “Eroi Senza Memoria” oggi in questo articolo vorrei usare il singolare, per elogiare le grandi gesta di un “Eroe Senza Memoria” il Colonnello Paolo Caccia Dominioni.

Colonnello Paolo Caccia Dominioni Conte di Sillavengo C.te 31° Btg Genio Guastatori d’Africa. Architetto, Ingegnere, Artista, Poliglotta, Scrittore, Volontario,

Pluridecorato al Valor Militare

(sia nella 1^ che nella 2^ Guerra mondiale)

Chi era? Certamente io lo conosco bene, ma come sempre, per raccontarlo il questo articolo mi sono voluto documentare in modo approfondito per essere all’altezza di dare un giusto tributo ad un Eroe.

Di nobile famiglia lombarda, visse la sua adolescenza al seguito del padre (Carlo, 17º conte e 12º signore di Sillavengo 1869-1936) diplomatico in Francia, in Austria-Ungheria, in Tunisia e in Egitto; tornato in Italia nel 1913, si iscrisse al Regio Istituto Tecnico Superiore (futuro Politecnico di Milano) frequentando il primo anno della facoltà di Ingegneria.

Trasferitosi a Palermo, dov’era l’università più vicina alla sede del padre a Tunisi, all’entrata in guerra dell’Italia nella prima guerra mondiale si arruolò immediatamente volontario nel Regio Esercito.

Dopo un primo periodo, come soldato semplice in forza al 10º Bersaglieri nella sede di Palermo, frequentò il corso ufficiali a Torino dal novembre 1915 al marzo 1916. Venne quindi assegnato al Genio Pontieri, dove, divenuto Tenente, nel maggio del 1917 si guadagnò una medaglia di bronzo al valore militare, per il forzamento dell’Isonzo nei pressi di Canale d’Isonzo durante il quale riportò una ferita non grave.

Dietro sua richiesta venne trasferito a una sezione lanciafiamme, di cui disegnò lo stemma di specialità, operante in prima linea sul Carso nell’agosto 1917, dove riportò una seconda ferita alla mano.

Dopo la ritirata di Caporetto dell’ottobre-novembre 1917, Caccia Dominioni fu trasferito in seconda linea nella valle del Brenta dove fu raggiunto dalla notizia della morte in combattimento del fratello Francesco Nicolò detto Cino, sottotenente del 5º alpini, il 29 gennaio 1918.

Trasferito in Libia a motivo del lutto nell’aprile 1918, venne adibito a servizi di guarnigione nei dintorni di Tripoli, dove lo sorprese l’annuncio della Vittoria (4 novembre 1918). Ammalatosi di influenza spagnola, ebbe il rimpatrio nel maggio 1919 e fu congedato l’anno seguente.

Terminati gli studi, dopo un iniziale avvicinamento al fascismo, se ne distaccò trasferendosi in Egitto nel 1924, dove avviò la propria attività professionale aprendo uno studio al Cairo, progettando importanti edifici in tutto il Medio Oriente tra cui l’edificio RAS a Beirut in Libano. Richiamato una prima volta nel 1931, prese parte a una spedizione (di carattere esplorativo, fino a Tummo) operante nell’estremo sud del deserto libico, il che gli valse il grado di capitano.

L’astrolabio disegnato da Caccia Dominioni per l’amico Peniakoff, che poi diventerà il simbolo del suo reparto.

Insieme ad altri europei che vivevano in Egitto, nel 1933 organizzò un raid di circa 780 km verso l’oasi di Siwa. Partiti il 14 maggio, “dodici amici, in questo maggio già torrido, su quattro Ford attrezzate per la sabbia” con l’obbiettivo di “compiere il viaggio in cinquanta ore, comprese le soste di riposo”, i sette uomini e cinque donne passeranno per i luoghi dove nel 1942 arriverà la seconda guerra mondiale: Marsa Matruh, el Daba, Fuka ed El Alamein[2]. Tra questi, altri futuri protagonisti della guerra che militarono sui fronti opposti, come Debeney e Vladimir Peniakoff, che militerà nelle file del Long Range Desert Group britannico e fonderà una sua unità speciale nota come Popski’s Private Army incrociando la strada di Dominioni durante un’incursione a Derna il 6 agosto 1942[3].

Richiamato ancora in servizio per la guerra d’Etiopia nel 1935, venne dapprima impiegato in una missione di intelligence in Sudan, poi in una pattuglia esplorante aggregata alla Colonna Starace nella marcia su Gondar, partecipazione che gli fruttò la Croce di Guerra al Valor militare.

Agli inizi del 1940, mentre stava dirigendo i lavori per la costruzione dell’Ambasciata d’Italia ad Ankara, venne richiamato in servizio per la quarta volta e assegnato per quattro mesi allo Stato Maggiore di Umberto II attestato alla frontiera francese. Gli venne infine consentito di terminare i lavori in Turchia fino all’agosto di quell’anno finché il richiamo definitivo alle armi avvenne nel gennaio 1941; destinazione d’impiego il Servizio Informazioni Militare. Insoddisfatto di questa collocazione di retrovia, ottenne di essere assegnato alla neocostituita specialità del Genio guastatori alpino; destinato in un primo momento in Russia, nel luglio 1942 gli fu affidato il comando del 31º Battaglione Guastatori d’Africa del Genio, impiegato durante tutta la campagna del Nord Africa.

Durante l’offensiva della prima battaglia di El Alamein, alla quale partecipò con una compagnia esplorante dei suoi guastatori aggregata al XX Corpo d’Armata, Caccia Dominioni venne decorato dal generale Erwin Rommel con la Croce di Ferro di 2ª classe tedesca, seguita da un encomio solenne. A causa della distruzione del reparto gemello del 31º, il 32º Battaglione Guastatori d’Africa[4], i sedici superstiti vennero aggregati al 31º come ottava compagnia e ne seguiranno le vicende agli ordini di Dominioni.

Partecipò poi anche alla seconda battaglia di El Alamein nel novembre 1942, con il suo 31° che era stato assegnato di rinforzo alla 185ª Divisione paracadutisti “Folgore” nello schieramento del XXI Corpo d’Armata, riuscendo a sfuggire all’accerchiamento; nello sganciamento il battaglione era stato reso parte di un reggimento di formazione insieme al 24º battaglione artieri e alla 15ª compagnia artieri d’arresto, con Dominioni comandante per anzianità di grado; iniziata la ritirata il 3 novembre con ordine di deviare verso l’interno per non ostacolare i movimenti sulla litoranea, Dominioni si organizza su un suo itinerario dopo aver perso contatto con gli altri reparti il 31° alle 14 del 5 novembre si trova a Khor el Bayat di fronte un blocco britannico formato da tre carri armati e da dietro un gruppo di quattordici autoblinde; gettandosi in una depressione a sud con quelli che credeva tutti i suoi autocarri, riuscirà a forzare il blocco con metà del battaglione e altri sei veicoli che si erano accodati; raggiunta la litoranea, riporta i suoi duecentocinquanta uomini verso Marsa Matruh per contribuire a un’azione di blocco contro l’8ª Armata britannica.

Il suo Battaglione fu l’unico reparto organico superstite del X Corpo d’armata italiano; per tale risultato il maggiore Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo venne decorato della Medaglia d’argento al valor militare.

Nel suo libro “Alamein 1933-1962” si trova una ricostruzione molto completa della battaglia, e in effetti anche del periodo antecedente dalla conquista di Tobruk fino all’arrivo delle truppe italo-tedesche in territorio egiziano.

Questa ricostruzione si basa su mappe originali di Rommel, su diari di vari militari impegnati sui due lati del fronte e su incontri avvenuti tra l’autore e altri partecipanti. Dopo un periodo di convalescenza, nel maggio 1943 si fece promotore della ricostituzione del Battaglione Genio guastatori alpini ad Asiago, e ne assunse il comando fino all’8 settembre 1943.

Sfuggito alla cattura tedesca a Bologna, si diede presto alla macchia entrando nel gennaio 1944 a far parte della 106ª brigata partigiana Garibaldi Sap Venanzio Buzzi; con il distaccamento di Nerviano eseguì in Lombardia varie azioni di comando, trasporto documenti segreti, sottrazione di armi alla Fiocchi Munizioni di Lecco sotto il falso nome di Francesco Nicolò Silva, suo omonimo antenato.

Nella Resistenza, dopo varie vicissitudini (nel luglio 1944 arrestato dalla G.N.R., subì percosse, rilasciato dai tedeschi, fu latitante, riarrestato a inizio 1945 fu scarcerato per un cavillo il 15 febbraio 1945) arrivò alla carica di Capo di Stato Maggiore del Corpo lombardo Volontari della Libertà a fine marzo 1945. Per la partecipazione alla lotta partigiana ebbe la Medaglia di bronzo al valor militare.

Dopo la fine della guerra riprese ben presto la sua attività nello studio di ingegneria del Cairo, e nel 1948 venne incaricato dal governo italiano di redigere una relazione sullo stato del cimitero di guerra italiano di Quota 33 a El Alamein, a cui seguì presto l’incarico di risistemazione.

Ebbe inizio così una missione di recupero che durò circa quattordici anni, spesi in gran parte nel deserto, alla ricerca delle salme dei caduti di ogni nazione, culminante con la costruzione del sacrario italiano da lui progettato.

Conosciuta nel 1953 la moglie Elena Sciolette, Paolo Caccia Dominioni tornò in Italia nel 1958, lasciando le redini della missione a Renato Chiodini pur continuando la supervisione del sacrario di Quota 33 con frequenti visite in Egitto.

Dal 1962 in poi, anche in seguito alla pubblicazione del libro Alamein 1933-1962 che vinse il Premio Bancarella, Paolo Caccia Dominioni svolse un’intensa attività progettistica di sacrari (tra i quali l’Ossario Nazionale Italiano) e cappelle commemorative dei caduti italiani della seconda guerra mondiale, unita a una fertile attività letteraria e illustrativa attorno alle proprie vaste esperienze belliche, che gli fruttò diversi premi e riconoscimenti (tra i quali il Cuor d’Oro nel 1963 e il San Valentino d’oro della Città di Terni nel 1985).

È da segnalare che Paolo Caccia Dominioni, che parlava correntemente tedesco, francese, inglese, arabo, continuò la sua attività di progettista e scrittore anche in tarda età fino alla morte, sopraggiunta all’ospedale militare del Celio all’età di 96 anni nel 1992.

Dopo la morte

Nel 2002, in occasione del 60º anniversario della battaglia di El Alamein, il Presidente della Repubblica ha concesso al tenente colonnello Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo la Medaglia d’Oro al Merito dell’Esercito “alla memoria”.

Un cinegiornale propagandistico d’epoca dell’Istituto Luce ci mostra il 31º Guastatori in azione, con effetto assai realistico: il Maggiore Medaglia D’Oro Caccia Dominioni sembra prestarsi volentieri alle riprese e lo si può osservare dare istruzioni ai suoi uomini con in testa il suo amatissimo cappello alpino.

Le Onorificenze:

Medaglia d’oro al valore dell’esercito – nastrino per uniforme ordinari – Medaglia d’oro al valore dell’esercito:

“Già Comandante del 31º Battaglione Guastatori del Genio nelle battaglie di El Alamein, assuntasi volontariamente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’alta ed ardua missione di ricerca delle salme dei Caduti di ogni Nazione, disperse tra le sabbie del deserto egiziano, la svolse per oltre 12 anni, incurante dei disagi, dei sacrifici e dei rischi che essa continuamente comportava. Con coraggio, sprezzo del pericolo, cosciente ed elevata preparazione tecnico-militare, condusse personalmente le ricerche tra i campi minati ancora attivi, venendo coinvolto per ben due volte nell’esplosione delle mine, sulle quali un suo gregario fu seriamente ferito e ben sei suoi collaboratori beduini rimasero uccisi. Per opera sua oltre 1.500 Salme Italiane disperse nel deserto, unitamente a più di 300 di altra nazionalità, sono state ritrovate. Altre 1.000, rimaste senza nome, sono state identificate e restituite, con le prime, al ricordo, alla pietà ed all’affetto dei loro cari. 4.814 Caduti riposano oggi nel Sacrario Militare Italiano di El Alamein, da lui progettato e costruito, a tramandarne le gesta ed il ricordo alle generazioni che seguiranno. Ingegnere, Architetto, Scrittore ed Artista, più volte decorato al Valore Militare, ha lasciato mirabile traccia di sé in ogni sua opera, dalle quali è derivato grande onore all’Esercito Italiano, sommo prestigio al nome della Patria e profondo conforto al dolore della Comunità Nazionale duramente provata dai lutti della guerra. El Alamein, Sahara Occidentale Egiziano, 1942-1962.”

Medaglia di argento al valor militare – nastrino per uniforme ordinaria        Medaglia di argento al valor militare:

“Comandante di Battaglione Guastatori, con perizia, entusiasmo, tenacia, esponendosi sempre dove più arduo era il compito dei suoi uomini, riuscì a fare del suo reparto una valida unità di guerra che, disputata dalle Grandi Unità in linea, seppe apportare, a prezzo di gloriose perdite, l’efficace suo contributo dovunque lo richiedeva l’asprezza dell’attacco o il consolidamento di una disperata resistenza. Accerchiato durante un ripiegamento, benché ferito, rifiutava sdegnosamente la resa, e riusciva a salvare il suo reparto, col quale continuava, con indomito valore, una strenua resistenza. El Alamein – Sirtica (A.S.), giugno-dicembre 1942.”

Medaglia di bronzo al valor militare – nastrino per uniforme ordinaria         

Medaglia di bronzo al valor militare

“In ardite ricognizioni e nella preparazione dei mezzi per il passaggio dell’Isonzo, diede bella prova di calma ed intelligenza. Nel difficile gittamento di un ponte e con successivi traghetti e spiegamento delle truppe sotto i tiri nemici, dimostrava sempre grande coraggio e sprezzo del pericolo. Ajba-Loga, 15-18 maggio 1917.”

Medaglia di bronzo al valor militare – nastrino per uniforme ordinaria          Medaglia di bronzo al valor militare

“Comandante di distaccamento partigiano si distingueva per elevata capacità, sprezzo del pericolo e senso del dovere, riuscendo a catturare numerose armi al nemico. Catturato e tradotto in carcere, nel tentativo di evadere veniva ferito ed immobilizzato. Sottoposto a stringenti interrogatori, torture e minacce di morte, sopportava stoicamente ogni violenza – per cui rimaneva invalido permanente – senza rivelare alcunché sulla causa partigiana. Lombardia, 15 settembre 1943-25 aprile 1945.”

Croce di guerra al valore militare – nastrino per uniforme ordinaria  Croce di guerra al valore militare

“Ufficiale addetto alle informazioni per una colonna celere A.O., assolveva i compiti affidatigli con perizia ed ardimento, prendendo diretto contatto con nucleo di armati nemici che con il loro atteggiamento rendevano incerta la situazione. Successivamente, per incarico avuto dal Comandante della Colonna, dirigeva lavori di sistemazione stradale, con mano d’opera indigena, in zona soggetta alle insidie del nemico. Africa Orientale Italiana, maggio 1936.”

Croce al merito di guerra (4 concessioni) – nastrino per uniforme ordinaria          

Croce al merito di guerra (4 concessioni)

Medaglia commemorativa della guerra 1915-1918 – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia commemorativa della guerra 1915-1918

Medaglia di benemerenza per i volontari della guerra italo-austriaca 1915-1918 – nastrino per uniforme ordinaria 

Medaglia di benemerenza per i volontari della guerra italo-austriaca 1915-1918

Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia – nastrino per uniforme ordinaria       

Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia

Medaglia interalleata della Vittoria – nastrino per uniforme ordinaria          

Medaglia interalleata della Vittoria

Medaglia commemorativa delle operazioni militari in Africa Orientale – nastrino per uniforme ordinaria         

Medaglia commemorativa delle operazioni militari in Africa Orientale

Medaglia commemorativa della guerra 1940–43 – nastrino per uniforme ordinaria         

Medaglia commemorativa della guerra 1940–43

Medaglia commemorativa della guerra di liberazione – nastrino per uniforme ordinaria 

Medaglia commemorativa della guerra di liberazione

Distintivo d’onore per i patrioti “Volontari della libertà” – nastrino per uniforme ordinaria

Distintivo d’onore per i patrioti “Volontari della libertà”

Cavaliere di Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta – nastrino per uniforme ordinaria         Cavaliere di Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta

Onorificenze estere:

Croce di Ferro di seconda classe (Germania) – nastrino per uniforme ordinaria  

Croce di Ferro di seconda classe (Germania) – 1954

Croce al Merito di I Classe dell’Ordine al merito di Germania – nastrino per uniforme ordinaria

Croce al Merito di I Classe dell’Ordine al merito di Germania – 1954

Il sito del Ministero della Difesa lo ricorda così (link): https://www.esercito.difesa.it/storia/pagine/paolo-caccia-dominioni.aspx

Già Comandante del 31° Battaglione guastatori del Genio nelle battaglie di El Alamein, dopo la fine della 2^ Guerra Mondiale svolgeva volontariamente, per oltre 12 anni, l’alta ed ardua missione di ricerca delle ​salme dei caduti di ogni nazione, disperse tra le sabbie del deserto egiziano, incurante dei disagi, dei sacrifici e dei rischi che essa continuamente comportava.

Con cosciente ed elevata preparazione tecnico-militare, coraggio e sprezzo del pericolo, conduceva personalmente le ricerche tra i campi minati ancora attivi, nel corso delle quali veniva coinvolto per ben due volte nell’esplosione delle mine, a seguito delle quali un suo gregario veniva seriamente ferito e ben sei suoi collaboratori beduini perdevano la vita.

Grazie alla sua opera, oltre 1500 salme italiane disperse nel deserto, unitamente a più di 300 di altra nazionalità, venivano ritrovate e altre 1000, rimaste senza nome, venivano identificate e restituite, con le prime, al ricordo, alla pietà ed all’affetto dei loro cari. Inoltre, 4814 caduti riposano oggi nel Sacrario Militare Italiano di El Alamein, da lui progettato e costruito, a tramandarne le gesta ed il ricordo alle generazioni che seguiranno.

Uno schizzo di PCD dedicato al suo XXXI

Comandante, ingegnere, architetto, scrittore ed artista, più volte decorato al Valore Militare, ha lasciato mirabile traccia di sé in ogni sua opera, dalle quali è derivato un grande onore all’Esercito Italiano, sommo prestigio al nome della Patria e profondo conforto al dolore della comunità nazionale, duramente provata dai lutti di guerra”.

El Alamein, (Sahara Occidentale Egiziano), 1942-1962

Paolo Caccia Dominioni in una immagine molto rappresentativa con la sua immancabile pipa

Foto lapide a colori

Sacrario militare italiano di El Alamein, la sua Lapide

……Ma la sua maggior impresa, che gli valse la riconoscenza internazionale, fu la rischiosa missione di raccolta delle salme di ogni bandiera sui campi di battaglia del desertico libico-egiziano, dove si isolò per oltre dieci anni dopo il 1948.

Il Conte Paolo Adeodato Maria Carlo Francesco Nicolò Ambrogio, XIV Signore di Sillavengo attraversò in lungo e in largo il deserto africano teatro dei terribili scontri del ‘42, raccogliendo 4814 salme a 2465 delle quali è stato possibile dare un nome e ideando, progettando e costruendo il Cimitero-Sacrario di El Alamein.

E in questa impresa, come nei giorni della battaglia, egli non ha mai abbandonato il suo cappello alpino!

Nel giugno del 50, a Roma per la cerimonia di consegna delle decorazioni al V.M. concesse al suo battaglione, il Maggiore Sillavengo ne incontra i reduci. Tra essi il guastatore Chiodini, veterano di Trobruk e argento al V.M., si offre di raggiungerlo a Q. 33 e di rimanervi sino alla fine della missione, “per dare una mano!”. Accettato! Il 4 ottobre il diario di Sillavengo registra:  “E’ arrivato Chiodini ed ha portato una seconda jeep. Con questo arrivo si può dire che il XXXI è ritornato sul campo di battaglia, unico tra le centinaia di unità italiane… Da oggi, qui nel deserto, riappaiono due cappelli alpini e il gagliardetto bianco-rosso”, l’insegna del battaglione in guerra.

I tedeschi lo definirono, per questa impresa, “der Sandgraf” il conte della sabbia, altri “il Cavaliere del Deserto”, ed i beduini “El Kaimakan el Abììt” il colonnello pazzo.

…….Non era pazzo……era un Gran Soldato…..ma la Sua grandezza (riconosciuta solo molti anni dopo) era scambiata per pazzia !!!

…..Sirte, mattino del 15 Novembre. Un vecchio indigeno si avvicina al fuoco acceso dei nostri cucinieri, un triste fuoco senza calore, che si vuol proteggere contro la pioggia fredda, sottile, alternata a colpi di maestrale grigio.

Il vecchio avrà ottant’anni, chiede pane e sigarette, ma il suo è un mendicare da granduca, senza viltà. Nel chiuso mondo islamico di Sirte è certamente un personaggio, si capisce da quel portamento, anche se gli stracci immondi che lo coprono possono indicare solamente una estrema povertà. Non sa parlare italiano, era troppo vecchio quando s’occupò la Libia, e l’indigeno di cinquant’anni non impara la lingua nuova, la lingua difficile del conquistatore.

Ma è un saggio, un Socrate da oasi e da carovana. Lo saluto nel mio cattivo arabo e gli offro qualche sigaretta. “Allah ti conservi”, dice. Gli chiedo: “Qual è il tuo pensiero su tutto questo?” Poco lontano, sulla strada, un Hurricane basso sta mitragliando il fatale deflusso della ritirata che non finisce mai. Il vecchio tace, il suo occhio guarda sopra la mia testa, all’infinito, oltre il mare color piombo e spumeggiante del maestrale.

Mi volto verso il mare anch’io, per seguire quello sguardo senza orizzonte. E vedo frangersi in un’ondata contro il relitto arenato d’un piroscafo, vedo l’alto geyser di schiuma, fuggevole colonna bianca fra tanto grigiore della natura e dei cuori.

Ma il vecchio ha parlato, ha detto gravemente una sola parola: “Takfir”. Takfir, espiazione. Dopo Tshushima il comandante Semenoff scrisse il libro di dolore, e lo chiamò Rasplata, espiazione.

La parola crudele ha riempito lo spazio, mostruosa, mentre il vecchio si allontana. Takfir è nelle nubi basse, takfir è nelle colonne di fumo nero che si levano dalla strada dopo le passate del Hurricane, takfir è nel cadavere denudato e rosso, rosso del fuoco che l’ha riarso, del soldato visto iersera sotto Agheila, vicino all’autocarro distrutto.

Ogni cosa oggi è takfir, e si accompagna alla parola tutto il suo significato gigantesco e biblico di immense folle innocenti sacrificate alla volontà, all’ambizione, all’interesse di pochi, in questa guerra, in tutte le guerre, come una maledizione.

Poiché anche suo marito combatté da quelle parti, avrà trovato molti corpi di commilitoni. Gliene parlava?

Paolo era molto riservato nei sentimenti. Teneva per sé le emozioni. Ma ha trovato, naturalmente, non solo le salme di soldati assieme ai quali aveva combattuto, ma pure di amici carissimi. Penso, per esempio, a Guido Visconti di Modrone (Comandante la ll^ Compagnia del IV Btg della Folgore)

Qual è stato l’ostacolo principale di quei dieci anni di ricerche?

La burocrazia. Le arrabbiature venivano da lì. A un certo momento più o meno verso il 1955 nacque il problema delle salme di alcuni nostri ascari libici. Dovevano essere seppelliti in un determinato modo.

Mio marito pensò di fare anche una piccola moschea, che servisse pure come tappa per quelli che volevano scendere, per dire una preghiera. Per quanto fosse ancora deserto, camionisti ne passavano tanti. Quindi prese carta e penna e scrisse a Roma per ottenere l’autorizzazione.

Risposta negativa?

Peggio: nessuna risposta. Ma sa, quando la gente non ruba, quando la gente fa semplicemente il proprio dovere, riesce a fare tante cose. Paolo aveva un po’ di soldi in avanzo e di sua iniziativa costruì la piccola moschea. Dopo qualche tempo, parlo di mesi ovviamente, giunse la risposta dalla capitale: «Non si ravvisa la necessità». Testuale.

É suo marito?

Rispose così: “Spiacente. La moschea è già fatta”. Testuale anche questo.

(Da una intervista ad Elena Caccia Dominioni, moglie del Comandante)

Il testo integrale della lettera a Monty

To Fieldmarshal

Bernard Law Montgomery

Viscount of Alamein, K.G.,

G.C.B., G.C.M.G., M.C., D.S.O.

The Army & Navy Club

Mio Lord,

Quando Ella pubblicò le Sue memorie Le scrissi che avrebbe fatto meglio a tacere, perché le rodomontate possono anche piacere nel caporale che poi le deve giustificare a esclusivo rischio della propria pelle, non in un capo arrivato ai massimi onori, e tuttavia compiaciuto di mescolare il forsennato orgoglio a un livore da portinaia parigina. Tutto ciò manca di stile, non è da Lord.

Ho sempre visto che pochi La difendono. Non ha ammiratori, specialmente tra colleghi e dipendenti diretti. Ripenso a quanto mi narrava, pur nell’euforia della recente vittoria, il. maggiore H. P. Waring che Le fu a lungo vicino e che La conosce bene.

Egli attribuiva la Sua alterigia, qualificandola di «caricaturale», alla tragedia interna di sapersi fisicamente miserello e rachitico, fatto intollerabile nell’esercito imperiale «Non ha mai visto una fotografia di Monty, diceva Waring, in piedi, presso uomini alti o anche soltanto di statura media? Mai. Sempre tutti seduti o disposti a sapienti dislivelli: ci pensavano i fotografi da campo, abilissimi, e sempre pronti ad archiviare le negative rivelatrici.» Waring continuava a parlare di Lei, sempre bisbetico, autoritario, intollerante e ingiurioso.

E raccontò la storia di un Suo famoso gran rapporto ai comandanti, da tenente colonnello in su, che l’indomani dovevano attaccare la nostra linea del sud tunisino, al Mareth.

Erano già abbastanza indispettiti d’esser convocati proprio quando più affannoso era il daffare per preparare l’azione: divennero furiosi quando l’attesa, presso la Sua tenda, raggiunse le due ore. Poi Ella uscì, li fece mettere in rango come reclute, e persino eseguire qualche movimento a comando, in ordine chiuso.

Erano Colonnelli e Generali, rossi da scoppiare per l’umiliazione e l’ira, ma silenziosi. Poi iniziò il rapporto con questo discorso: Gentlemen, ci sono tre modi di dare gli ordini. Il primo è usato con gente di intelligenza normale, parlando in tono naturale. Il secondo, riservato a coloro che hanno intelletto lievemente inferiore alla media, segue il sistema della velocità di dettato, dictation speed. Il terzo è invece necessario quando l’intelligenza degli ascoltatori è nettamente inferiore alla media: gli ordini vengono pronunciati due volte, sempre a dictation speed. Questo ultimo sistema ho prescelto oggi per lorsignori, dovendo dare le istruzioni per Lì battaglia di domani.

Pensavo che Waring esagerasse; tutto ciò mi sapeva di pettegolezzo, inaccettabile persino da noi mediterranei fantasiosi, e dicevo tra me: chissà che rospi, caro Waring, ti ha fatto ingoiare. Ma alla luce delle Sue memorie quelle parole mi sono poi apparse mirabilmente veritiere.

Poiché Le scrivo proprio da Alamein, mio Lord, dove Ella fece indubbiamente una importante esperienza nei nostri riguardi, vorrei ragionare un po’ di queste cose. Chiedo venia se parlo di me, modesto capo di un buon battaglione; ma poi ebbi il privilegio di tornare qui e vi ho trascorso complessivamente, tra il 1948 e oggi, circa dieci anni, assieme a Renato Chiodini, mio soldato di allora.

Gli inglesi addetti al ricupero delle Salme d’ogni nazione, anziché compiere l’opera iniziata nel 1943, l’avevano considerata esaurita soltanto quattro anni dopo. La riprese il governo italiano, e così molte altre migliaia di caduti italiani, tedeschi e alleati furono ritrovate a cura di noi due. Questo lungo lavoro ci ha fatto capire bene la battaglia, molto meglio delle documentazioni segrete, perché abbiamo estratto dalla sabbia i plotoni, le compagnie e i reggimenti. Non ci è mancato il tempo di imparare la esatta verità.

Abbiamo avuto meno tempo per la lettura: qui eravamo scavatori, muratori, architetti, dattilografi, osteologi, imbianchini, falegnami, topografi, cartografi e soprattutto autisti. Ma qualche cosa abbiamo letto, anche sopra la guerra. Il generale Freddy De Guingand, Suo capo di stato maggiore, menti quando scrisse che l’attacco britannico ad Alamein fu risolutivo verso il mare e dimostrativo a sud. È l’affermazione ufficiale, ribadita anche nei documenti a firma di Lord Alexander e Sua. Essa mi ha fatto, ogni volta, fremere di sdegno perché ambedue gli attacchi furono risolutivi.

A nord furono travolti, la notte stessa sul 24 ottobre 1942, due battaglioni tedeschi e tre italiani, ma una resistenza furiosa, a tergo, per otto giorni impedì a Lei di avanzare nonostante la documentata proporzione di uno a sei in Suo favore.

Al centro, mio Lord, fu piccola giostra, ma quando quel settore ripiegò, la Bologna e l’Ariete Le dettero molto lavoro, come gliel’avevano dato, a nord, la Trento, la Trieste e la Littorio.

A sud il Suo generale Horrocks, comandante il XIII corpo d’armata, avrebbe dunque avuto da Lei l’ordine di fare un’azione dimostrativa. Un ordine che vorrei proprio vedere con questi occhi miei. Laggiù non c’era bisogno che Ella cercasse la sutura tra tedeschi e italiani, in modo di attaccare solo i secondi, cioè quelli che non avevano voglia di combattere. Pensi che fortuna, mio Lord: niente tedeschi, tutti italiani, proprio come voleva Lei. La Folgore, con altri reparti minori, tra cui il mio.

Nel Suo volume Da Alamein al fiume Sangro, Ella ebbe la impudenza di affermare che Horrocks trovo un ostacolo impensato, i campi minati: e toglie implicitamente qualsiasi merito alla difesa fatta dall’uomo; vuoi ignorare che quei campi erano stati creati anni prima dagli stessi inglesi, che vi esistevano strisce di sicurezza non minate e segrete, a noi ignote, che permisero ai Suoi carri di piombarci addosso in un baleno, accompagnati da fanterie poderose.

Eppure l’enorme valanga, per quattro giorni e quattro notti, fu ributtata alla baionetta, con le pietre, le bombe a mano e le bottiglie incendiarie fabbricate in famiglia, «home made». La Folgore si ridusse a un terzo, ma la linea non cedette neppure dove era ridotta a un velo. Nel breve tratto di tre battaglioni attaccati, Ella lasciò in quei pochi giorni seicento morti accertati, senza contare quelli che furono ricuperati subito e i feriti gravi che spirarono poi in retrovia. E questa è strage da attacco dimostrativo? Come può osare affermarlo? Fu poi Lei a dichiararlo tale, dopo che Le era finalmente apparsa una verità solare: mai sarebbe riuscito a sloggiarci dalle nostre posizioni (che abbandonammo poi senza combattere, d’ordine di Rommel, ma questa è faccenda che non riguarda Lei), e preferì spedire il Suo Horrocks a nord, per completare lo sfondamento già in atto.

La sua malafede, mio Lord, è flagrante. Ella da noi le prese di santa ragione. lo che scrivo e i miei compagni fummo e restiamo Suoi vincitori. Eppure Lei non è sempre stato in malafede per quanto ci riguarda.

Nel luglio 1943, durante lo sbarco in Sicilia, erano in servizio presso il 230 ospedale generale scozzese in Palestina quattro medici italiani prigionieri, il capitano Mauro, i Tenenti Rossi, Garbarino e Parvis. Le notizie, presentate velenosamente dalla stampa locale, avevano assai avvilito i quattro Ufficiali. Il Colonnello medico direttore, un bravo scozzese, volle consolarli, e dopo aver parlato delle fatali vicende di ogni conflitto, disse: «Voglio offrirvi, a titolo riservatissimo, un elemento di conforto». E mostrò un documento segreto, intitolato Storia dell’Ottava Armata, a firma Montgomery. Era un opuscolo di ottanta pagine, diramato soltanto a comandi ed enti molto elevati. Narrava gli avvenimenti di guerra, e parlava a lungo delle truppe italiane, con la massima obiettività. Criticava Rommel «che aveva sacrificato» le nostre fanterie, mentre avrebbe potuto trarne ancora grande aiuto. Citava la Folgore come una delle più eroiche divisioni del mondo e ricordava con ammirazione, tra le altre, anche la Brescia.

Quel documento, del quale voglio qui ringraziarLa, rende però ancora più ingiusto e odioso il suo atteggiamento successivo.

Ma oggi, mio Lord, non è giorno di asprezza. È la festa del nostro Battaglione, e inoltre l’anniversario ventesimo di quando esso, per il primo, espugnò la cinta fortificata di Tobruk e vi irruppe.

Qui regna il solito silenzio gigantesco del deserto: sappiamo che al massimo, sulla vicina litoranea, passerà qualche autocarro isolato, senza fermarsi. Qui non verrà nessuno.

Siamo soli, Chiodini ed io, e tuttavia Ella ci trova in uniforme e cappello alpino, come sempre da anni, per onorare i morti, e oggi in modo particolare, per la ricorrenza che ho detto e perché è l’ultimo giorno nostro a Quota 33. Ci mettevamo in borghese quando veniva gente che non gradivamo.

Peccato che Ella sia astemio: non v’è periodico che non abbia menzionato questa Sua prerogativa. Avremmo stappato l’ultima bottiglia d’una cantina che mai conobbe splendori, e L’avremmo invitata a un brindisi per il nostro battaglione e per la Sua armata. Le rivolgiamo invece un altro invito, e La preghiamo di salire sulla jeep. Venga, mio Lord, stiamo per iniziare un giro che La interesserà.

Vuoi sapere che cosa stia mormorando Chiodini al momento di mettere in moto? Dice: B’ism’Illah ul rohmàn ul rahìm, nel nome di Allah onnipotente e misericordioso, primo versetto del Corano. Abbiamo preso quest’abitudine dai beduini, che mai iniziano un viaggio, un lavoro, una rapina, una notte nuziale senza pronunziare le sacre parole. Non importa se Chiodini le articoli con l’accento di Porta Ticinese, perché il suo cuore è puro. Scendiamo il pendio sassoso fino alla litoranea, filiamo a buon passo sull’asfalto, verso Alessandria, ma per nove chilometri soli; imbocchiamo la Pista Rossa, fondo infernale perché gli americani venuti dai Texas alla ricerca del petrolio hanno massacrato e profanato l’intero deserto con certi loro colossali autotreni, purtroppo sopravvissuti nonostante l’attraversamento di infiniti campi minati tuttora pericolosi. Non si preoccupi: siamo vecchi ambedue, Lei tre quarti di secolo, io due terzi; ma la nostra solidità è intatta.

Percorriamo un rettifilo di ventinove chilometri, tra-versiamo i costoni di Miteyryia, di Deir el Abyiad, di Deir el Qatani e giunti a Dweir el Tarfa volgiamo a est, ci incanaliamo nello uadi di Qaret el Abd, sbuchiamo a Bab el Qattara sulla Pista dell’Acqua, proseguiamo verso Deir Alinda e Deir el Munassib. Lasciamo la jeep e percorriamo duecento metri a piedi. Saliamo un costoncino. Qui era il 187° reggimento Folgore: qui morirono moltissimi, che portavano nomi illustri e oscuri. È appunto uno tra i più modesti che Le vogliamo ricordare, il paracadutista Gino Trazzi, scomparso tra queste pietre e il centro di fuoco ancora riconoscibile sotto quei due cespugli disseccati. Ora proseguiamo verso quella curiosa nave di roccia a due gobbe, Haret el Himeimat. L’orizzonte è molto più ampio, perché siamo saliti: queste carregge che Lei vede nella sabbia sono ancora quelle del 1942. Qui passò, ritornando combattendo dalla corsa dei sei giorni, il III gruppo corazzato lancieri di Novara: sopra questo spiazzo di pietroni levigati, con poca sabbia, lasciò il caporale di cavalleria Paolo Flachi, milanese.

Ora è tempo di tornare: abbiamo percorso ottanta-cinque chilometri, ma ce ne manca ancora un centinaio, perché l’itinerario di ritorno è un po’ più lungo. Rifacciamo la nostra pista fino a Bab el Qattara, poi scendiamo lungo la Pista dell’Acqua fino al costone del Ruweisat dove si è così accanitamente lottato. La posizione domina tutto il campo di battaglia, a nord e a sud. Vede questo canaletto scavato parallelamente alla pista? È opera vostra, dell’anno 1941: doveva accogliere la tubazione d’acqua per il vostro presidio al Passo del Carro, ma non faceste in tempo a collocarla: arrivammo prima noi. In quel punto esatto, dove io getto una pietra, la notte sul 31 agosto 1942, dentro lo scavo, ramparono all’assalto i guastatori della prima compagnia, 31° battaglione: e Giuseppe Celesia palermitano, «boy», come direbbe Lei, del tenente Enrico de Rita, si buttò davanti il suo ufficiale e rimase ucciso da una pallottola in piena fronte.

Dopo il Ruweisat facciamo una cosa audace e tagliamo con rotta a 290 gradi, fuori pista. Non abbia timore, mio Lord: conosciamo il paesaggio metro a metro, e sappiamo anche dove sono le mine tuttora presenti, circa un milione sopra i sei milioni e mezzo che ebbimo l’onore di collocare assieme, amici e nemici, vent‘anni or sono. Traversiamo Deir el Shein, nome di raccapricciante memoria, e seguiamo l’andamento delle linee lungo la curva di livello 25, sinuosa e malfida, fino alla zona che voi chiamavate Kidney Ridge. Come vede, mio Lord, non è più rimasto un chiodo: quando Ella fu qui nel 1954, il campo di battaglia poco era mutato dal tempo di guerra. Qui si stendeva il gran reticolato che recingeva la sacca minata detta Genova da noi e «J» dai tedeschi: non ci eravamo sempre messi d’accordo sulla toponomastica, e forse anche su qualche altro argomento, ma questo è affar nostro, che non riguarda Lei.

L’ho portata nella piana contigua al Kidney Ridge perché vi sono caduti, tra altri mille, quattro bravi soldati che Le voglio nominare: il fante Ernesto Fogliasso, torinese, del 62° fanteria Trento, il carrista Ugo Passini bolognese, del 133° reggimento Littorio, il bersagliere Emilio Miotello padovano, del 12° reggimento, e l’artigliere senese Dante Martinelli del 3° celere Duca d’Aosta. Sono morti nello spazio di quarantott’ore, più o meno allo stesso posto, benché fossero di così disparate unità: e questo conferma quanto accanita sia stata la baraonda di quel finale ottobrino.

Ora è tempo di superare la ferrovia e tornare alla nostra base di Quota 33, dove anche da qui vediamo sventolare il tricolore che viene issato soltanto nelle grandissime occasioni. E Le dirò perché ho voluto che Lei vedesse il posto dove morirono Trazzi, Flachi, Celesia, Fogliasso, Passini, Miotello e Martinelli. Appartenenti a sette armi e corpi diversi del regio esercito, nessuno dei sette aveva gradi elevati, nessuno ebbe, che sappia, medaglie: morirono oscuri, e spinsero la modestia al punto che quando ne cercammo le spoglie non trovammo nulla. Di nessuno. Sette irreperibili.

Eccoci di nuovo a Quota 33. Ma prima di separarci. mio Lord, abbia la compiacenza di venire con noi qui dove si stendeva l’immenso rettangolo delle croci italiane e tedesche, oggi purtroppo sostituito da assai meno suggestivi sacrari (quello italiano è opera mia). Il terreno ormai è uniforme e le tracce delle croci sono scomparse. Ma voglio indicarLe il posto dove erano sepolti due morti assai ben conosciuti, e decorati della medaglia d’oro che corrisponde alla Vostra Victoria Cross: Livio Ceccotti capitano pilota, ucciso mentre scendeva in paracadute dopo l’abbattimento del suo aereo, e Umberto Novaro capitano di vascello, comandante l’incrociatore Bartolomeo Colleoni, raccolto morente in mare dai marinai inglesi dopo che la sua nave era stata affondata in combattimento, morto ad Alessandria delle ferite riportate, da Voi sepolto con tutti gli onori, e poi portato qui ad Alamein perché maggior gloria venisse al suo nome: un bel gesto da parte inglese.

Perdoni, mio Lord, se ora voglio abusare della mia doppia qualifica di anfitrione attuale e antico vincitore non assistito dal potente alleato germanico. Io La invito a mettersi sull’attenti davanti ai nove nomi che ha sentito, sette quasi sconosciuti e due gloriosissimi: io La prego di salutare. Ma intendiamoci: un saluto regolarmente britannico a scatto e tremolo, non quello ostentatamente trasandato, da superuomo, che Le vidi fare alla Sua stessa bandiera il 23 ottobre 1954, quando Ella inaugurò il cimitero imperiale di Alamein. Lo vidi bene, ero a pochi metri da Lei, con Chiodini, unici invitati italiani tra lo stuolo dei generali britannici e del Commonwealth, ed era giusto che agli ospiti italiani fosse assegnato quel posto dopo tanti anni che anche le Salme britanniche dimenticate nel deserto, in gran numero, ritrovavano un posto d’onore grazie alla cura, e con qualche rischio, del 31° battaglioni guastatori d’Africa.

Written at Alamein, Hill 33

June 20th 1962

Your Lordship’s

Most humble, most obedient

Servant to command

Sillavengo, Lt. Col.

Former O.C. 31th Combat Sappers Bataillon

Royal Italian Army

Paolo Caccia Dominioni

Un uomo sicuramente d’avventura: soldato, agente segreto, esploratore e viaggiatore; un artista: pittore, scrittore, ideatore di opere architettoniche, vignettista; un tecnico: ingegnere ed architetto di grandi qualità; per trovare qualcuno di simile nella storia la mente corre immediatamente ad un Leonardo o ad un Michelangelo. Ma in PCD c’è qualcosa in più di questi grandi geni: una etica e carità umana, dalla quale spiccano un forte senso del dovere e di pietas non comuni, in sintesi UN GRANDE COMANDANTE. Indubbiamente il capolavoro della sua vita sono i 14 anni passati (più o meno in solitudine, accanto aveva sempre, come un’ombra, il generoso, insostituibile Renato Chiodini – Guastatore del 31°) tra le sabbie di El Alamein, dedito alla pietosa composizione dei resti dei soldati che vi combatterono……….. amici o nemici.

Ritengo però che non si debba fare l’errore di porlo nella contemporanea categoria dei buonisti, fu un soldato vero e determinato contro i nemici, combattendo quattro guerre e se si vuole esaminare un dettaglio che può essere indicativo del suo essere, basta osservare il viso cazzuto del suo San Michele Arcangelo. 

……..Tutti se ne andarono, tutti i ragazzi di El Alamein. Italiani e non……… Tutti meno uno, Paolo Caccia Dominioni. Reduce anche lui dalla battaglia, tenente colonnello del genio guastatori, Caccia Dominioni conosceva il deserto già prima della guerra. Scampato alla conta dei morti, tornato in Italia, entrò nella Resistenza, guadagnandosi anche – da partigiano – una medaglia d’argento. Ma El Alamein gli aveva cambiato la vita. Troppo per non ritornare tra quelle dune con un unico obiettivo. Dare degna sepoltura a chi non solo era morto, ma era rimasto sotto la sabbia. Fino a che qualcuno, mosso dalla pietà e dal quel senso di aver vissuto dolorosamente insieme un’esperienza unica, non decise che bisognava trovarli, quei ragazzi.

Nel deserto negli anni 60 eccolo sulla dx ed a sx Renato Chiodini alle spalle la jeep con lo

stendardo del glorioso 31° Genio Guastatori.

Con cosciente ed elevata preparazione tecnico-militare, coraggio e sprezzo del pericolo, conduceva personalmente le ricerche tra i campi minati ancora attivi, nel corso delle quali veniva coinvolto per ben due volte nell’esplosione delle mine, a seguito delle quali un suo gregario (Renato Chiodini) veniva seriamente ferito e ben sei suoi collaboratori beduini perdevano la vita

E’ stato definito in vari modi, “uomo rinascimentale”, “eroe”, “conte della sabbia”, “colonnello pazzo”: ma, come citato nell’ottima conferenza  scritta dal suo caro amico Generale Gualtiero Stefanon, lui stesso si definiva sbrigativamente “un najone”……

Il Gen. Gualtiero Stefanon ha scritto di lui:

“Ovunque egli vivesse, intorno a lui era un continuo avvicendarsi di reduci e veterani, sui compagni d’arme, che ne spronavano il ricordo e la fantasia perché la sua matita magica fissasse una volta di più sulla carta quel passato che era tutta la loro vita.”

Un bellissimo disegno è quello che rappresenta l’avvocato Peppino Prisco, gia´ ufficiale nel battaglione Alpini l’Aquila medaglia d’argento nella campagna di Russia, insieme a suo figlio sottotenente 30 anni dopo nel battaglione l’Aquila.

Scrive ancora il Gen. Gualtiero Stefanon:

“Non erano solo i veterani a richiedere l’opera di Paolo Caccia Dominioni: c’erano anche quelli delle generazioni più giovani, quelli che in guerra non c’erano stati per ragioni di età. Moltissimi ufficiali dell’esercito del dopoguerra, colsero l’opportunità di chiedergli un disegno, uno schizzo, una rappresentazione dell’unità che essi comandavano tale da sintetizzarne la storia e di fasti. … Un giorno andarono da lui alcuni reduci della Divisione Alpina Monterosa, dell’esercito della R.S.I., e gli chiesero qualche suggerimento per dare veste di sacrario dei caduti della Divisione ad un piccolo oratorio, San Rocco, situato nei pressi di Palleroso, un paesino della Garfagnana sulla ex Linea Gotica. … Ancora una volta la risposta del vecchio soldato, che pure aveva militato dalla parte opposta, fu Si. … Uomini così non muoiono mai, sono indistruttibili ed eterni nell’insegnamento che trasmettono. Come dicono gli Alpini il Ten. Col. Paolo Caccia Dominioni è solo andato avanti.”

Paolo Caccia Dominioni, conte e barone, 14° signore di Sillavengo, è nato a Nerviano, in provincia di Milano, il 14 maggio 1896, nella “casa vecchia”, figlio di Carlo, regio Ministro Plenipotenziario e di Bianca Cusani Confalonieri.

Il motto della casata, “Nihil difficile volenti”, è, di per sé, già tutto un programma

Nel giugno del 50, a Roma per la cerimonia di consegna delle decorazioni al V.M. concesse al suo battaglione, il Maggiore Sillavengo ne incontra i reduci. Tra essi il guastatore Chiodini, veterano di Trobruk e argento al V.M., si offre di raggiungerlo a Q. 33 e di rimanervi sino alla fine della missione, “per dare una mano!”. Accettato! Il 4 ottobre il diario di Sillavengo registra:  “E’ arrivato Chiodini ed ha portato una seconda jeep. Con questo arrivo si può dire che il XXXI è ritornato sul campo di battaglia, unico tra le centinaia di unità italiane… Da oggi, qui nel deserto, riappaiono due cappelli alpini e il gagliardetto bianco-rosso”, l’insegna del battaglione in guerra.

Termina qui questo appuntamento con ERONI SENZA MEMORIA – COLONNELLA PAOLO CACCIA DOMINIONI – EROE SENZA MEMORIA al quale oggi ho voluto rendere i Giusti Onori. Nel raccogliere tutto questo materiale per realizzare queso bel progetto editoriale in collaborazione con il Fratello William il desidero comune è sicuramente quello di donare al lettore un momento di riflessione e di condivisione di quanti grandi Uomini hanno perso la vita, ma soprattutto tanti e tanti giovani soldati nel pieno della loro giovinezza strappati brutalmente all’affetto dei loro cari.

Scrivendo ogni articolo il mio intento, oltre a quello di non far perdere il ricordo, sarebbe quello di portare un messaggio di pace, perchè nessun soldato nel suo cuore vuole la guerra; nelle guerre questi soldati ci si sono trovati perchè hanno giurato fedeltà alla loro Patria, ma il loro cuore ha sempre pulsato per la Pace.

Ed oggi che il contesto ci presenta ancora teatri operativi bellici in più aree geografiche del nostro pianeta, non nascondiamoci nelle nostre case spegnendo i televisori e censurando noi stessi nell’apprendere le notizie dai vari fronti; si è una forma di difesa psicologica dall’incessante martellamento mediatico che ci ha afflitto sin dall’inizio della pandemia, ma traduciamo tutto questo per renderci promotori di un messaggio di Pace.

Almeno proviamoci.

Ciao William, vorrei correre con Te a passo cadenzato da vero Bersagliere, ma mi daresti almeno 200 metri di distanza, ma idealmente stasera una corsetta insieme ce la facciamo.

Tornate su questo Blog per i prossimi appuntamenti http://www.alessandrolopez.it

Ciao
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2 Risposte
  1. Davide

    Non mi ero imbattuto mai nella storia del colonnello Caccia Dominioni ed è stata una occasione per approfondirla,tante sono le vite che questo militare ha vissuto

  2. EMESE MOHACSAN

    Grazie Ale! Sto imparando la storia che non sapevo! Grazie….grazie….sapevo sempre che sei UNICO!!!