Cari Lettori, benvenuti nel mio Blog con il nuovo appuntamento Eroi Senza Memoria BETASOM. Oggi parleremo di questo Eroi Senza Memoria, la storia di questa base sottomarina italiana, di tutta la flotta che ne ha fatto parte e di tutti gli Eroi che sono intervenuti nei teatri operativi bellici mondiali. Nell’attuale contesto storico che stiamo vivendo, questi articoli servono per ricordare grandi gesta di Eroi senza distinzione di Reparti e specialità del nostro Esercito dando loro il giusto tributo ed Onore e sperando di far passare un messaggio di Pace, perché nessuno di questi Soldati ha mai voluto una guerra, a tutti i livelli gerarchici hanno dovuto obbedito ad ordini mantenendo fede al loro giuramento di fedeltà alla Patria. Tutto questo non deve essere contaminato da nessuna interpretazione politica, ma è un racconto asciutto ed obiettivo di come si sono svolti i fatti storici.
Tutto frutto di un’accurata ricerca effettuata come sempre in collaborazione con il mio fratello e collega di Corso AUC William.
BETASOM era l’acronimo di Bordeaux Sommergibile (ottenuto dall’unione della prima lettera della parola «Bordeaux» -espressa con il nome della lettera dell’alfabeto greco equivalente dal punto di vista fonetico («beta») e la prima sillaba della parola «sommergibile»), la base navale dei sottomarini della Regia Marina a Bordeaux (costa atlantica meridionale francese) durante la seconda guerra mondiale. La base accolse una trentina di battelli della Regia Marina dall’autunno 1940 all’8 settembre 1943, data dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile. La base era anche una delle cinque basi navali di U-Boot della Kriegsmarine in Francia durante la seconda guerra mondiale. Attualmente la base ospita uno spazio culturale.
La base sottomarina italiana
Il 25 luglio 1940, il ministero della Marina italiano ottenne l’autorizzazione allo schieramento di un certo numero di sottomarini in appoggio alla Germania nazista per la guerra nell’oceano Atlantico. Il luogo prescelto per la sede delle operazioni fu la città di Bordeaux, dove fu costruita una base navale a cui fu assegnato il nome in codice di BETASOM.
La strategia sarebbe stata impostata insieme all’alleato tedesco, ma dal punto di vista tattico e disciplinare i vari battelli avrebbero operato sotto la responsabilità dei rispettivi comandi. Questo perché Hitler temeva che, in caso di impiego dell’aviazione tedesca in Africa Settentrionale, una richiesta simile di comando unificato avrebbe portato gli aviatori germanici sotto il comando italiano.
La base era costituita da due darsene intercomunicanti attraverso una chiusa. Inoltre, la presenza di bacini di carenaggio rendeva possibile la messa a secco degli scafi per le necessarie operazioni di revisione e riparazione. Il personale era alloggiato in apposite casermette ottenute dalla conversione di alcuni magazzini. La sorveglianza interna era affidata a reparti dei carabinieri, mentre il presidio della base era affidato ad un battaglione del Reggimento San Marco.
La base fu ufficialmente inaugurata il 30 agosto 1940 con l’arrivo dell’ammiraglio Angelo Parona. I tedeschi assegnarono agli italiani due navi passeggeri, il transatlantico francese Admiral de Grasse, di 18.435 tonnellate e, in ottobre, il piroscafo tedesco Usaramo di 7.775 tonnellate. L’Admiral de Grasse, oltre alla stazione radio, ospitava l’infermeria.
L’edificio in cemento armato della stazione marittima fu trasformato in alloggi, mentre altri edifici furono utilizzati per uffici e magazzini.
Furono assegnati a BETASOM 35 ufficiali, compresi 3 ufficiali dell’esercito per i reparti del battaglione San Marco e 426 militari del corpo degli equipaggi della Regia Marina. In totale, la forza del personale militare e civile assegnato ai servizi della base assommava a circa 800 uomini, compresa la compagnia mitraglieri del battaglione San Marco di 225 uomini addetta alla vigilanza interna della base, mentre esternamente la vigilanza era di pertinenza tedesca. In aggiunta, i Tedeschi avevano installato sei batterie antiaeree da 88 mm e 45 mitragliere da 20 mm e garantivano il servizio antiaereo e la scorta navale lungo la Gironde e nel golfo di Biscaglia.
Le operazioni
I sommergibili italiani svolsero la prima fase del loro ciclo operativo nell’Atlantico Settentrionale e, successivamente, nella zona equatoriale. Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, svolsero alcune crociere anche presso le coste nordamericane.
Nel luglio-agosto 1941, a causa dell’andamento negativo della guerra nel Mediterraneo, fu ordinato il rientro di una decina di battelli (Perla, Guglielmotti, Brin, Argo, Velella, Dandolo, Emo, Otaria, Mocenigo, Veniero e Glauco). Questa volta, il passaggio attraverso Gibilterra comportò la perdita di un sottomarino, il Glauco.
Il progettato attacco al porto di New York
Il comandante della base Romolo Polacchini aveva già ipotizzato da tempo un attacco contro un porto americano. Inizialmente, in previsione dell’entrata in guerra del Brasile, si era ipotizzato il forzamento del porto di Rio de Janeiro, impiegando il sommergibile Leonardo da Vinci comandato da Gianfranco Gazzana Priaroggia come mezzo avvicinatore.
In seguito si decise invece di utilizzare il Leonardo da Vinci per un progetto ben più ambizioso, l’attacco al porto di New York. Il sommergibile avrebbe dovuto trasportare fino alla foce dell’Hudson un piccolo sommergibile tascabile Classe CA (fu inviato via treno a Bordeaux, per l’operazione, il CA 2) in un apposito «pozzo» di circa 10 metri ricavato al posto del cannone prodiero.
Il sottotenente di vascello Eugenio Massano fu inviato appositamente a Bordeaux dal comandante della Xª Flottiglia MAS Junio Valerio Borghese dove avrebbe dovuto guidare il piccolo Classe CA; il mini-sommergibile, con a bordo alcuni «uomini gamma» (sommozzatori d’assalto) e 28 cariche esplosive da 20 a 100 kg, si sarebbe portato nel porto per minare delle navi.
I lavori furono effettuati nell’agosto 1942 e in settembre furono svolte le prove di rilascio del CA 2 dal Da Vinci sotto la supervisione del tenente di vascello Eugenio Massano. Le prove ottennero risultati apprezzabili, nel corso delle quali il da Vinci, in immersione a circa 12 metri, rilasciava il piccolo CA per poi recuperarlo. In realtà il recupero era un’ipotesi molto remota e si era già previsto che i membri del Gruppo Gamma avrebbero dovuto distruggere il mezzo al termine dell’operazione per poi raggiungere la terraferma.
La missione fu rinviata e poi annullata in seguito alla perdita del da Vinci il 23 maggio 1943.
A partire dal 1943, alcuni sottomarini italiani vennero utilizzati per operazioni di trasporto di materie prime dall’Europa al Giappone.
Dopo l’armistizio
Al momento dell’armistizio presso la base navale di Betasom, comandata dal capitano di vascello Enzo Grossi, che aderì alla Repubblica Sociale Italiana, erano distaccati tre sommergibili oceanici, l’Ammiraglio Cagni, il Giuseppe Finzi e l’Alpino Bagnolini. Il Cagni, che era in missione, accettò l’armistizio e si recò nel porto alleato di Durban, dove fu ricevuto con l’onore delle armi. Gli equipaggi degli altri due sommergibili optarono per l’adesione alla RSI, e i due sommergibili operarono per breve tempo sotto le bandiere repubblicane e la base assunse la nuova denominazione di «Base atlantica dell’Italia repubblicana”».
Il 14 ottobre 1943 i due sommergibili superstiti furono incorporati nella Kriegsmarine. Cinquanta specialisti rientrarono in Italia e furono incorporati nella Xª Flottiglia MAS.
Il Bagnolini, che imbarcava personale misto italo-tedesco, fu utilizzato per missioni di trasporto di materie prime con il Giappone e fu affondato nei pressi del Capo di Buona Speranza l’11 marzo 1944.
Il Reginaldo Giuliani fu affondato con siluro nel 1944 dal sommergibile inglese Tally-Ho nello stretto di Malacca di ritorno da Singapore con equipaggio italotedesco. Gli altri marinai restati a Bordeaux furono incorporati nella Marina Nazionale Repubblicana e, integrati da altri marinai provenienti dagli Internati Militari Italiani, furono impiegati come difesa costiera costituendo la 1ª Divisione Atlantica Fucilieri di Marina che, nel maggio 1945, prese parte alla difesa di Bordeaux.
Non tutti aderirono alla RSI: alcuni marinai scelsero di aderire al maquis, la Resistenza francese. Fra essi Giacomo Parodo, già marinaio del 1º Reggimento “San Marco”, poi fucilato nel 1944 dopo alcuni mesi fra i partigiani francesi (verrà insignito con medaglia d’oro al valor militare alla memoria). Anche successivamente altri marinari disertarono e aderirono alla Resistenza francese, venendo poi – alcuni di essi – fucilati.
Tratto dai ranghi dei «fucilieri di Marina» fu costituito nel 1944 il battaglione Longobardo che rientrato in Italia fu incorporato nella Xª Flottiglia MAS.
La Flotta
L’Italia, al momento dell’entrata in guerra, possedeva oltre un centinaio di sottomarini, ma solo una quarantina erano adatti alle crociere oceaniche. La scelta dei mezzi destinati a BETASOM coinvolse quindi solo queste unità. La base atlantica ospitò complessivamente 32 sottomarini. Una prima flotta di 27 battelli fu trasferita nell’autunno del 1940 attraverso il Mar Mediterraneo e comprendeva le seguenti unità:
Alessandro Malaspina (a Betasom dal settembre 1940, 6 missioni svolte, scomparso nel settembre 1941 per azione antisommergibile alleata)
Tazzoli (a Betasom dall’ottobre 1940, 9 missioni svolte, trasformato in sommergibile da trasporto tra fine 1942 ed inizio 1943, scomparso nel maggio 1943 probabilmente per urto contro mina)
Calvi (a Betasom dall’ottobre 1940, 8 missioni svolte, affondato dallo sloop HMS Lulworth il 15 luglio 1942)
Finzi (a Betasom dal settembre 1940, 10 missioni svolte, trasformato in sommergibile da trasporto nella primavera-estate 1943, catturato a Bordeaux all’armistizio)
Bagnolini (a Betasom dal settembre 1940, 11 missioni svolte, trasformato in sommergibile da trasporto nella primavera-estate 1943, catturato a Bordeaux all’armistizio)
Giuliani (a Betasom dall’ottobre 1940, 3 missioni svolte, distaccato per qualche tempo a Gotenhafen presso la scuola per sommergibilisti italiani, trasformato in sommergibile da trasporto nella primavera 1943, catturato in Indonesia all’armistizio)
Tarantini (a Betasom dall’ottobre 1940, 2 missioni svolte, affondato il 15 dicembre 1940 dal sommergibile HMS Thunderbolt)
Marconi (a Betasom dal settembre 1940, 6 missioni svolte, scomparso nel settembre 1941)
Da Vinci (a Betasom dall’ottobre 1940, 11 missioni svolte, affondato il 22 maggio 1943 dal cacciatorpediniere HMS Active e dalla fregata HMS Ness)
Torelli (a Betasom dall’ottobre 1940, 12 missioni svolte, convertito in sommergibile da trasporto nel marzo-aprile 1943, catturato in Giappone all’armistizio)
Baracca (a Betasom dall’ottobre 1940, 6 missioni svolte, affondato l’8 settembre 1941 dal cacciatorpediniere HMS Croome)
Marcello (a Betasom dal dicembre 1940, 3 missioni svolte, scomparso nel febbraio 1941)
Dandolo (a Betasom dal settembre 1940, 6 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nel giugno-luglio 1941)
Mocenigo (a Betasom dal dicembre 1940, 4 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nell’agosto 1941)
Veniero (a Betasom dal novembre 1940, 6 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nell’agosto 1941)
Barbarigo (a Betasom dal settembre 1940, 11 missioni svolte, trasformato in sommergibile da trasporto nel marzo maggio 1943, scomparso nel giugno 1943 probabilmente per attacco aereo)
Nani (a Betasom dal novembre 1940, 3 missioni svolte, scomparso il 7 gennaio 1941)
Morosini (a Betasom dal novembre 1940, 9 missioni svolte, affondato da attacco aereo l’11 agosto 1942)
Emo (a Betasom dall’ottobre 1940, 6 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nell’agosto 1941)
Comandante Faà di Bruno (a Betasom dall’ottobre 1940, 2 missioni svolte, scomparso il 6 novembre 1940)
Comandante Cappellini (a Betasom dall’ottobre 1940, 12 missioni svolte, trasformato in sommergibile da trasporto nella primavera 1943, catturato a Singapore all’armistizio)
Bianchi (a Betasom dal dicembre 1940, 4 missioni svolte, affondato il 5 luglio 1941 dal sommergibile HMS Tigris)
Brin (a Betasom dal dicembre 1940, 5 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nell’agosto-settembre 1941)
Glauco (a Betasom dall’ottobre 1940, 5 missioni svolte, affondato il 27 giugno 1941 dal cacciatorpediniere HMS Wishart)
Otaria (a Betasom dal settembre 1940, 8 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nel settembre 1941)
Argo (a Betasom dall’ottobre 1940, 6 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nell’ottobre 1941)
Velella (a Betasom dal dicembre 1940, 4 missioni svolte, rientrato in Mediterraneo nell’agosto 1941)
Un ulteriore sommergibile, il Cagni, fu trasferito a BETASOM nel 1942-1943, non appena ne fu completato l’allestimento. Per raggiungere l’Atlantico, tutti i sottomarini italiani furono costretti ad attraversare lo stretto di Gibilterra, dov’è tuttora situata una grande base navale della Royal Navy. Il passaggio non fu esente da difficoltà, anche a causa delle correnti marine, ma avvenne senza incidenti.
Successivamente, furono integrati nella flotta altri quattro sommergibili (due soli dei quali, tuttavia, operarono per Betasom, mentre gli altri due rientrarono in Mediterraneo dopo alcuni lavori), provenienti dall’Africa Orientale Italiana. In vista dell’imminente caduta dell’Eritrea (che ospitava l’importante base navale di Massaua) si decise, infatti, di evacuare tutto ciò che rimaneva della componente subacquea della marina “coloniale”, in modo da non farla cadere in mani inglesi. I quattro sommergibili erano:
Archimede (a Bordeaux dal 7 maggio 1941, 3 missioni svolte, affondato da attacco aereo il 15 aprile 1943)
Perla (a Bordeaux dal 20 maggio 1941, mai divenuto operativo per Betasom, rientrato in Mediterraneo nel settembre-ottobre 1941)
Guglielmotti (a Bordeaux dal 7 maggio 1941, mai divenuto operativo per Betasom, rientrato in Mediterraneo nel settembre-ottobre 1941)
Ferraris (a Bordeaux dal 9 maggio 1941, 1 missione compiuta, affondato il 25 ottobre 1941 dal cacciatorpediniere HMS Lamerton)
Questi battelli raggiunsero BETASOM circumnavigando l’Africa con l’ausilio della nave cisterna tedesca Nordmark, che si occupò del rifornimento in alto mare delle quattro unità (il Perla, sommergibile di piccola crociera, necessitò anche di un altro rifornimento, da parte della nave corsara tedesca Atlantis)[5].
Gli affondamenti
Nel corso delle loro missioni in Atlantico i sommergibili di Betasom affondarono complessivamente 109 navi per 593.864 tonnellate di stazza lorda, così suddivise[19]:
Da Vinci: 17 navi per 120.243 tsl (il sommergibile non tedesco con maggior successo nel secondo conflitto mondiale[20])
Tazzoli: 18 navi per 96.650 tsl
Torelli: 7 navi per 42.871 tsl
Morosini: 6 navi per 40.927 tsl
Barbarigo: 7 navi per 39.300 tsl
Calvi: 6 navi per 34.193 tsl
Cappellini: 5 navi per 31.648 tsl
Finzi: 5 navi per 30.760 tsl
Archimede: 2 navi per 25.629 tsl
Marconi: 7 navi per 18.887 tsl
Malaspina: 3 navi per 16.384 tsl
Giuliani: 3 navi per 16.103 tsl
Bianchi: 3 navi per 14.705 tsl
Emo: 2 navi per 10.958 tsl
Baracca: 2 navi per 8553 tsl
Brin: 2 navi per 7241 tsl
Bagnolini: 2 navi per 6962 tsl
Dandolo: 2 navi per 6554 tsl
Cagni: 2 navi per 5840 tsl
Argo: 1 nave per 5066 tsl
Veniero: 2 navi per 4987 tsl
Otaria: 1 nave per 4662 tsl
Nani: 2 navi per 1939 tsl
Marcello: 1 nave per 1550 tsl
Mocenigo: 1 nave per 1253 tsl
I sommergibili Faà di Bruno, Ferraris, Glauco, Tarantini e Velella non affondarono nessuna nave, così come Guglielmotti e Perla, che non svolsero alcuna missione offensiva.
Dopo la riorganizzazione tattica e “tecnologica” (riduzione dei tempi per l’immersione rapida, modifica della falsa torre per renderla meno visibile, sostituzione dei condizionatori d’aria con sistemi al freon, siluri tedeschi ecc.), e metodi più intensivi e razionali di addestramento, formazione e selezione del personale e del vitto, svolti nel corso del 1941, le prestazioni dei battelli (inizialmente poco esaltanti) migliorarono.
Fino ad attestarsi tra il 1942-1943 ad un valore del battello italiano rispetto a quello tedesco sul medesimo fronte pari al 59%; ovvero due battelli italiani in media riuscivano ad affondare più naviglio di un singolo battello tedesco. Indice, questo, dei numerosi limiti tecnologici (ed in parte anche operativi ed addestrativi perduranti) dei sommergibili italiani. Furono comunque risultati più lusinghieri di quelli ottenuti in Mediterraneo.
I violatori di blocco
Nel corso del conflitto, tra il 1941 ed il 1942, ripararono a Bordeaux anche numerosi violatori di blocco italiani: dalla Spagna la nave cisterna Clizia ed i piroscafi Capo Lena, Drepanum e Fidelitas, dalle Canarie i piroscafi Atlanta ed Ida, dal Brasile i piroscafi XXIV Maggio, Africana e Monbaldo e la motonave Himalaya (proveniente dall’Eritrea) e dal Giappone le motonavi Cortellazzo, Fusijama (proveniente dalla Thailandia) e Pietro Orseolo; si trasferirono inoltre da Bordeaux a Saint Nazaire, dov’erano arrivate in un primo momento, anche le navi cisterna Burano, Frisco e Todaro.
Tutte le navi in questione trasportavano migliaia di tonnellate di materiali, gran parte dei quali d’interesse bellico, che furono poi inviati in Italia; la maggior parte di esse fu poi impiegata per conto delle forze tedesche, mantenendo i propri equipaggi italiani. Dalle Canarie raggiunse Bordeaux, nell’ottobre 1940, anche il piropeschereccio Balena, che venne impiegato per pescare il pesce necessario al personale della base sommergibilistica.
A Bordeaux si svolsero inoltre i lavori di preparazione (imbarco di cannoni e mitragliere, nebbiogeni e altro), per nuove missioni di forzamento del blocco, dei quattro violatori di blocco più moderni e veloci: la Cortellazzo, l’Himalaya, la Fusijama e la Pietro Orseolo, che avrebbero poi dovuto raggiungere il Giappone e quindi fare ritorno a Bordeaux con materie prime irreperibili in Europa.
Allo scopo venne inviato a Bordeaux personale tecnico della Regia Marina: le navi furono pronte tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943. Solo la Pietro Orseolo riuscì in tale missione, arrivando in Giappone e rientrando a Bordeaux, seppur danneggiata, con 6800 tonnellate di materie prime (in particolare gomma naturale), mentre la Cortellazzo fu costretta ad autoaffondarsi poco dopo la partenza, l’Himalaya dovette cancellare due tentativi di forzamento del blocco e la Fusijama non lasciò mai più Bordeaux.
La base sottomarina tedesca
Costruzione
La pianificazione della costruzione di una base di sottomarini in bunker data del 1940 all’interno del Marine Bauwesen, il dipartimento incaricato delle costruzioni all’interno dell’Oberkommando der Marine (OKM), lo stato maggiore della Kriegsmarine tedesca, ma arriva dopo quella delle altre basi sottomarine sull’Atlantico, all’epoca più accessibili ai bombardieri britannici. L’organizzazione Todt comincia la costruzione nel settembre 1941 sul bacino nº 2 di Bacalan. La costruzione durerà 22 mesi e sotto la supervisione, come per le altre basi sottomarine tedesche, di Andreas Wagner.
La struttura era costituita di un blocco di calcestruzzo armato di 245 metri di lunghezza per 162 metri di larghezza e 20 metri di altezza. Une torre bunker di 48 × 73 metri vi era connessa. Essa ospitava 11 alveoli[24] di 100 a 115 metri di lunghezza, 7 di questi alveoli potevano accogliere un sottomarino e 4 ne potevano accogliere due. L’altezza era di 11,4 metri[23] e il pescaggio di 9 metri (con un marnage di 1,5 metri).
I sette “alveoli” centrali potevano essere messi a secco. Ognuno è separato da un muro spesso da 5 a 6 metri e chiuso con delle porte blindate per proteggerlo dalle esplosioni di bombe. All’altra estremità del bacino, una linea ferroviaria traversa il bunker e serviva i differenti “alveoli”. Ogni “alveolo” è equipaggiato di due ponti ruotanti di una capacità di sollevamento di 3 o 5 tonnellate permettenti su ognuna di trasportare materiali pesanti e munizioni.
Dall’altro lato della linea ferroviaria, la struttura ospitava, su diversi piani, atelier, luoghi di stoccaggio, uffici, spazi comuni e un’infermeria.
L’insieme era coperto da un primo tetto in calcestruzzo armato da 3,5 metri di spessore. Questo fu ricoperto da un secondo tetto di 2,1 metri di spessore. A partire dal 1943, con l’aumentata autonomia dei bombardieri alleati e ugualmente delle bombe diventate più potenti, i tedeschi decisero di rinforzare ancora il tetto posandoci sopra una struttura detta Fangrost.
Si tratta di una serie di travi in calcestruzzo da 32 tonnellate poste parallelamente, distanziate da 5 a 6 metri e ricoperte da altre travi più piccole poste perpendicolarmente alle prima. Questo dispositivo doveva provocare l’esplosione della bomba prima che essa arrivi al tetto. Ma questo “reticolo” non era stato ancora completato ad agosto 1944.
Per motivi di sicurezza, i siluri e il carburante erano stoccati esteriormente, in piccoli bunker situati a 200 metri a nord-est della base (vicino al boulevard Daney).
600.000 m³ di calcestruzzo furono necessari per la costruzione. L’organizzazione Todt impiega diverse migliaia di operai, alcuni volontari, ma la maggior parte prigionieri di guerra di coscritti, tra cui 3.000 repubblicani spagnoli, “i rossi” (si stima che più di 70 vi sono morti), ma anche dei francesi, degli italiani, dei belgi e degli olandesi.
Operazioni
Dalla costruzione dei primi “alveoli”, la base diventa nell’ottobre 1942 il porto base della 12. Unterseebootsflottille (dal tedesco: la 12ª flottiglia di sottomarini). Questa flottiglia effettuava delle missioni di lunga durata tra cui quelle nell’oceano Indiano e le connessioni col Giappone].
Il porto di Bordeaux e le sue dipendenze (Le Verdon, Ambès, Bassens, Pauillac) ospitavano ugualmente una flottiglia di una ventina di pattugliatori, di una quindicina di dragamine e qualche cacciatorpediniere incaricati di assicurare la protezione dei sottomarini al loro arrivo e alla loro partenza.
Il 17 maggio 1943 ci fu un importante raid statunitense. Un’informazione della resistenza francese aveva indicato alle forze alleate una forte concentrazione di sottomarini[26]. Ma il bombardamento fatto a 22.000 piedi fu impreciso e colpì poco la base. Una porta del bacino fu distrutta e cinque sottomarini colpiti. Ma i danni civili furono importanti, più di 200 immobili furono colpiti, 184 abitanti furono uccisi e 249 furono feriti. Da gennaio ad agosto 1944, ci furono più di 13 raid anglo-americani sulla base sottomarina e l’aeroporto di Mérignac, ma senza grandi successi.
Il 28 agosto 1944, Bordeaux e il porto sono evacuati dai Tedeschi.
Gli Eroi
Il Comandante Longanesi
Decorato con 4 MAVM (2 delle quali Sul Campo), 2 MBVM (1 delle quali Sul Campo), 1 Croce di Guerra, 2 Croci di Ferro tedesche (di Prima e Seconda Classe), 4 Citazioni sul Bollettino del Comando Supremo, 1 Encomio Solenne.
Ed inoltre:
Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia
Medaglia commemorativa per operazioni militari in A.O.I. con gladio romano
Cavaliere Mauriziano
Medaglia d’onore di lunga navigazione di 1° grado
Campagne di guerra per gli anni 1940-41-42-43-44-45
Nastrino guerra 40-43 con 4 stellette
Nastrino di guerra 43-45 con 2 stellette
Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana
Croce d’oro per 40 anni di servizio
Grande Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica Italiana
Croci di ferro di 1^ e 2^ classe (governo tedesco)
Ufficiale dell’ordine della corona d’Italia
distintivo di terzo grado per navigazione in guerra sui sommergibili
distintivo d’onore per personale imbarcato sui sommergibili
Medaglia d’onore di lunga navigazione aerea
Ordine delle Spade (governo svedese)
Gran Croce al merito Melitense con placca
Mauriziana per 10 lustri di carriera militare
Campagna di guerra per l’anno 1936
Nato a Bagnacavallo (Ravenna) il 4 maggio 1908, entra nel 1924 nell’Accademia Navale di Livorno quale allievo del Corpo di S.M.Viene Promosso Guardiamarina nel 1929, Sottoten. di Vascello nel 1930, Tenente di Vascello nel 1934, Capitano di Corvetta nel 1940, Capitano di Fregata nel 1946, Capitano di Vascello nel 1952, Contrammiraglio nel 1959, Ammiraglio di Divisione nel 1962, ed Ammiraglio di Squadra nel 1966.
Dopo brevi periodi di imbarco sull’esploratore QUARTO e sull’incrociatore TRENTO, viene destinato quale Ufficiale di Rotta sui cacciatorpediniere LEONE e NICOTERA dal quale sbarca nel 1931 per frequentare il Corso Superiore presso l’Accademia Navale.
Nel 1932 è inviato presso la Scuola di Osservazione Aerea della Regia Aeronautica a Taranto dove consegue il brevetto di”Osservatore dall’aeroplano” e successivamente presta servizio presso la 187a Squadriglia Idrovolanti di Cadimare (La Spezia); la 188a di Pola; la 184a di Augusta e presso il 91° Gruppo Autonomo da Bombardamento Marittimo di Cadimare, dedicandosi in modo particolare agli studi e alle sperimentazioni di lancio di siluri da aeromobile.
Nel 1934 dopo il corso presso la Commissione Permanente per gli Esperimenti dei Materiali da guerra di La Spezia, consegue il brevetto di abilitazione “T” e la sua tesi finale, dal titolo “Il problema del lancio del siluro dall’aereo” viene giudicata estremamente interessante ed approfondita, non esistendo nulla di già scritto in merito.
Avvicinandosi il periodo previsto per il Comando navale, nel 1937 viene destinato alla componente subacquea e, dopo un periodo di tirocinio a bordo dei sommergibili TOTI e MILLELIRE, è nominato Ufficiale in 2a del BRAGADIN del quale, nel settembre 1938 diviene Comandante.
Nel gennaio 1939 assume il comando del sommergibile BRIN di base a Massaua in Africa orientale; e con esso compie una speciale crociera nell’Oceano Indiano durante la stagione dei monsoni, per sperimentare l’impiego dei sommergibili con mare grosso in zone oceaniche tropicali. Per la perizia dimostrata e per gli utili dati raccolti, il comandante Longanesi riceve l’elogio del Capo di Stato Maggiore della Marina.
Nel febbraio 1940 rientra in Patria con il BRIN, iniziando una intensa attività addestrativa e, dopo l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, effettua alcune missioni di guerra in Mediterraneo prima di venire destinato ad operare nell’Oceano Atlantico.
Dalla Base di Betasom a Bordeaux compie, al comando del BRIN e poi dall’ottobre 1941 al comando del DA VINCI, numerose missioni in Atlantico contro convogli alleati, affondando 8 unità per un totale di 34.439 tsl. cogliendo lusinghieri successi e meritandosi 4 Medaglie d’Argento al V.M., 2 di Bronzo e 1 Croce di Guerra.
Le sue elevate qualità professionali e militari vengono riconosciute anche dall’alleato tedesco che, per le sue brillanti azioni, gli concede 2 Croci di Ferro e lo cita ben 4 volte nel “Bollettino” del Comando Supremo.
Lasciato nell’agosto 1942 il comando del DA VINCI, viene destinato in Mar Nero quale Capo della Squadriglia di Sommergibili C. B. a bordo dei quali partecipa volontariamente a numerose azioni di guerra.Rientrato in Italia nel dicembre 1942, passa in forza alla X Flottiglia MAS quale comandante designato del nuovo sommergibile MURENA di cui cura l’allestimento in configurazione speciale per il trasporto dei mezzi d’assalto di superficie e subacquei.
Subito dopo l’armistizio viene destinato alla Casa Militare del Duca D’Aosta quale primo Aiutante di Campo e, catturato dai tedeschi, segue volontariamente la famiglia del Duca nella prigionia in Austria.
Dopo la seconda guerra mondiale è destinato a bordo dell’incrociatore EUGENIO di SAVOIA quale Comandante in 2a, quindi ricopre l’incarico di Capo Servizio Cooperazione Aeronavale presso il Comando in Capo delle Forze Navali e di Comandante in 2a delle Forze Navali Costiere.
Nel 1949/50 frequenta il 12° Corso Superiore presso la Scuola di Guerra Aerea di Firenze, quindi assume il Comando della 5a Squadriglia Torpediniere e di Nave SIRIO.Viene quindi destinato a Verona presso il Comando delle Forze Alleate Terrestri del Sud Europa e frequenta la 16a Sessione dell’Istituto di Guerra Marittima di Livorno.
Nel dicembre 1953 viene destinato a Stoccolma quale Addetto Navale e per la Difesa in Svezia e per gli Stati scandinavi; nell’agosto 1956 ritorna alla componente subacquea quale Comandante di Sommergibili e della Stazione Sommergibili di Taranto.
Nel novembre 1957 assume il comando della Prima Flottiglia Navi Scorta che lascia nel settembre 1958 per l’incarico di Capo Ufficio del Segretario Generale della Marina e di Comandante di Maricentro Roma.Promosso Contrammiraglio, viene destinato a Parigi presso il Comando Supremo delle Potenze Alleate in Europa.
Nel 1962 è Comandante di Comar Venezia e nel 1963 assume il Comando della III Divisione Navale che lascia nell’agosto del 1964 per l’incarico di Vice Capo Ufficio del Capo di Stato Maggiore della Difesa.
Promosso Ammiraglio di Squadra, ricopre successivamente gli incarichi di Presidente della Commissione Ordinaria di Avanzamento, di Comandante in Capo dei Dipartimenti dell’Alto Tirreno e dell’Adriatico e di Presidente del Consiglio Superiore delle Forze Armate (Sezione Marina).
Nel 1971 viene collocato in ausiliaria ed in riserva nel 1979.
Muore improvvisamente a Roma il 12 Marzo 1991, simbolicamente ancora in plancia per la sua Marina, mentre stà lavorando ad una preziosa opera documentale sui Sommergibili.
Una scuola di coraggio e abnegazione
Quella volta l’uomo da intervistare era il clandestino
Da Betasom, il “Da Vinci” parti con settanta chili di patate in meno e un uomo in piu; e, quando tornò dalla missione vittoriosa (quattro navi affondate), il “personaggio” a bordo era certamente il marinaio Cacace.
Un marinaio scappa dall’ospedale militare e, qualche giorno dopo, viene scoperto sul smg “Da Vinci” in missione di guerra nell’ Atlantico. Non è questo l’unico episodio di giovani che, durante il conflitto 1940-43, si imbarcarono, clandestinamente, sui sommergibili per partecipare a missioni oltremodo rischiose, pur essendo esonerati per ragioni di salute o per altri motivi. Tanto accadeva a Bordeaux, in Francia, dove avevano la base le nostre unità subacquee.
Vorrei ricordarne oggi, per tutti, uno che ebbe come protagonista un umile marò di Torre del Greco e che, sbarcato al termine di una missione alle Antille dal smg “Da Vinci”, era stato ricoverato per “deperimento organico” nell’ospedale militare di Bordeaux, dal quale scomparve, in circostanze alquanto misteriose, alcune ore prima della partenza dell’unità per una nuova azione.
Si cerca di ricostruire questo episodio del lontano 1942 non solo perché, nella rievocazione dei ricordi collettivi, spinge una laibniziana “voluttà” di narrare cose singolari di quell’ epoca, ma anche perché ritengo che esse possano, alla luce del passato, far comprendere meglio il presente, soprattutto, laddove riesce difficile dare una risposta al parsoniano “movente di azione”.
Si narrano i fatti reperiti sulla scorta di testimonianze raccolte in rete e vissute, in prima persona, dall’ Amm. di sq. Luigi Angelo Longanesi Cattani, all’epoca comandante del “Da Vinci”, e del collega Sergio Bernacconi, in quei giorni corrispondente di guerra a Betasom.
Maggio 1942: sul “Da Vinci” sono finiti i lavori di raddobbo che vengono effettuati a ogni rientro da una missione e sono state, altresì ultimate le prove in mare. L’unità è pronta per una nuova avventura oceanica. Il Comandante Longanesi informa l’Amm. Polacchini che, d’accordo con l’ amm. Doenitz, ha portato la guerra di corsa in prossimità delle coste americane, nell’ Atlantico meridionale.
Arriva l’ordine di partenza e, con lo stesso, il saluto all’equipaggio di Polacchini che, fra l’altro, chiede a Longanesi se ha notizie del marinaio Cacace. Questi risultava assente dall’Ospedale militare nel quale era stato ricoverato, come innanzi detto, al rientro dalla missione nelle Antille. Il marò viene cercato a bordo ma inutilmente.
Il “Da Vinci” prende il mare e, quando oramai le coste europee sono già lontane, il ten. di vasco Guido Saccardo, ufficiale in seconda, sale in plancia e comunica al Comandante che, in un sacco, è stato trovato il Cacace, invece delle … patate: «settanta chili di viveri in meno e un uomo in piti. Era stato imbarcato, clandestinamente, complice il cambusiere “paesano”».
Portato di fronte a Longanesi che, per la circostanza, ha messo la maschera della “faccia feroce” mentre, nel cuore, apprezza il gesto dell’uomo, il marò Cacace, con voce tremante e commossa, casi si difende: «Ho fatto tutta la guerra con questo sommergibile e con lei. Non potevo rimanere a terra per un po’ di febbre. Ho voluto seguire la sorte del mio battello. Mi dispiace per le patate caricate in meno, vuoi dire che io non ne mangerò».
Resta però, l’atto di indisciplina, che va punito. Ma Longanesi rimanda il tutto al ritorno a terra, che fu, in vero, un ritorno carico di nuove vittorie. Al periscopio del “Da Vinci” sventolavano, infatti, quattro bandierine: le navi affondate (Reine Marie, Stewart, Chile, Alioth e Clan Mc Quarrie) per un totale di 24.500 t ..
Al momento dell’ attracco al pontile, come a ogni rientro di un sommergibile che ha registrato dei successi, si presenta, puntualmente, il giornalista Bernacconi, inviato del “Giornale d’Italia”, per l’intervista con il comandante. E qui il racconto prosegue dallo stesso Longanesi.
«Riunii l’equipaggio e dissi ai miei uomini che non mi sembrava giusto dovesse essere intervistato sempre e solo il comandante. Mi sembrava piu giusto intervistare chi, in una missione vittoriosa, avesse avuto l’occasione di dare qualcosa piu degli altri a bordo. Perciò ritenevo che, nel nostro caso, l’uomo del “Da Vinci” da intervistare dovesse essere il marinaio Cacace, il quale, mentre avrebbe potuto restare tranquillamente in un comodo letto di ospedale, sapendo oltretutto di potersi successivamente godere una lunga licenza di convalescenza, aveva, invece, preferito affrontare, per la quinta volta, i rischi e i disagi di una lunga missione di guerra, in precarie condizioni di salute. Ma il marinaio Cacace si oppose fermamente alla mia proposta e rifiutò l’intervista, dicendo: «No, vi prego comandante, non lo fate! Se no, al mio paese, quando leggono il giornale, dicono: mappina, quanto sei fesso,. per una volta che potevi restare a terra in pace, hai voluto partire perfm’e la guerra».
La guerra sul mare è ricca di episodi nei quali, come in questo di Cacace, il comportamento degli uomini non è sempre dettato in “psicologia dell’ educazione”, come potrebbe essere quella di un militare di carriera che, nelle scuole o nelle accademie, è stato abituato a vincere la paura e, attraverso un assiduo esercizio, a diventare coraggioso.
Quale allora il movente? Se il comportamento individuale è il prodotto di determinati processi psichici, sui quali gioca, secondo la moderna letteratura sociologica, un’influenza fondamentale il tipo di società in cui l’uomo vive, debbo arguire che le motivazioni del gesto di Cacace vanno ricercate nell’ambito socio-culturale della famiglia dei sommergibilisti.
E, d’altro canto, quale migliore sede per un’ evoluzione del proprio comportamento, considerati gli elementi motivazionali, che aggregano i sommergibilisti e che vanno dalla “medicina eroica” del coraggio, leva di progresso, all’appartenenza ad un gruppo di uomini il quale, nel silenzio degli abissi marini e sulle grandi distese azzurre, impara a vivere, tra le “presenze” invisibili e impalpabili di quel qualcosa di vivo del “pianeta” di J. Cousteau, oltre le frontiere della stessa vita.
E di questo gruppo, che Giulio Raiola identifica in un “filone segreto” della Marina, fanno parte ufficiali, sottufficiali e marinai, i quali, da Lissa a Premuda, da Buccari ad Alessandria, sono stati protagonisti delle più incredibili e assurde imprese, nelle quali “la beffa affiora con i suoi inconfondibili elementi”, così come il più alto senso del rispetto della vita umana in mare.
Un ambiente, nel quale il fraterno e generoso cameratismo conduce il simile verso il suo simile e crea, come tutti i grandi fatti della vita, i presupposti per il formarsi di enigmi storici e psicologici come, ad esempio, il sentire, di fronte al comandante, uno dei sentimenti piu semplici, più puri e più alti: la gioia di obbedire.
E, continuando a enumerare, anche il più misterioso dei rebus umani, cioè il sentimento dell’ amicizia, intorno al quale, sin dai primi albori della civiltà, dissertano illustri cervelli, riempiendo di “rispettabili opinioni filosofiche” migliaia e migliaia di pagine di trattati per tentarne una fisiologia.
E’ questo sentimento che probabilmente origina, in Cacace, il bisogno psicologico di reimbarcarsi sul “Da Vinci” e che egli soddisfa, nonostante il divieto dell’autorità sanitaria, orientando il proprio agire e ricorrendo, con la complicità del “paesano”, ad un machiavello.
In altre parole, la motivazione del suo agire nasce nel momento stesso in cui, con la notizia della prossima partenza del battello, si sostanzia in lui, in un senso di privazione, quell’amicizia che, su un sommergibile, spinge i membri dell’equipaggio, come le gocce del mercurio, a fondersi in un tutt’uno, più per un’istintiva tendenza dell’animo, unita al sentimento di fratellanza, e meno per un calcolo, di fronte al pericolo, della maggiore o minore possibilità di vincere quest’ultimo.
Non senza un motivo, in quel di Bordeaux, i nostri sommergibilisti venivano indicati come componenti della “Band of brothers” .
Il Comandante Salvatore Todaro
Uscito da una famiglia siciliana estremamente modesta, entrò nel 1923 nell’Accademia militare di Livorno. Ne uscì nel 1928 col grado di guardiamarina. Fu per tre anni in aviazione, a studiare l’impiego degli idrovolanti come lanciatori di siluri. Tornò in marina a tempo per assumere il comando di un sommergibile nella seconda guerra mondiale.
Praticava lo yoga. Lo affascinavano la magia e le religioni orientali. Usava il “pendolino” per cercare sulla carta naufraghi e navi. Rideva, ma un poco ci credeva sul serio.
Occhi neri, barbetta caprina, questo ufficiale siciliano ha un coraggio leonino e una furbizia da vecchia volpe. E’ l’unico comandante di sommergibile che odia i siluri. “Sono armi imperfette”, dice, “lente e troppo costose”. La vera arma da guerra è il cannone”. Ne ha due da 100 mm in coperta, e quando il periscopio inquadra una nave nemica, ordina immancabilmente l’emersione.
Se non bastano i cannoni, Todaro ha pronte in coperta le biscagline, le scale di corda con cui si va all’arrembaggio, come gli antichi corsari. I suoi uomini hanno tutti un coltellaccio alla cintola. Il Cappellini (il Suo sommergibile) ha uno sperone affilatissimo, voluto dal comandante. Con quello può andare a testa bassa contro chiunque, come un bufalo dalle corna affilate.
Notte del 15 ottobre. Il Cappellini viaggia in superficie presso le isole di Capo Verde. D’un tratto le vedette che scrutano l’orizzonte coi grossi binocoli danno l’allarme: una sagoma scura all’orizzonte. Todaro ordina: “Macchine a tutta forza!”, e impugna lui stesso i binocoli. E’ il Kabalo, un grosso piroscafo che batte bandiera belga, carico di aerei e di motori per aviazione.
E’ diretto a Freetown, nella Sierra Leone. L’inseguimento, nella notte, è furioso. Todaro sa che deve giungere a distanza di combattimento prima che i disperati appelli radio del piroscafo abbiano chiamato le navi da guerra inglesi.
L’alba ha appena disegnato una linea rossa all’orizzonte, quando dal Cappellini parte la prima salva. Due colonne d’acqua si elevano a duecento metri dal Kabalo. Il duello è cominciato. Le cannonate rintronano nel mare sempre più fitte, sempre più precise, le quattro del mattino. “Una salva centra il Kabalo a poppa”, scrive Giuseppe Grazzini, “si sviluppa un incendio.
Todaro avanza ancora, accosta in fuori, mette a segno altri colpi in plancia e al galleggiamento, vede la nave che sbanda e si arresta: è la fine. A tratti, nella luce abbagliante dell’incendio di distingue la gente del Kabalo che corre nelle scialuppe cercando di metterle in mare, ma non ci riesce perché le cannonate del Cappellini hanno fracassato scafi e manovre.
Soltanto una si stacca, stracarica, dalla nave che affonda: con il mare agitato che c’è certamente non arriveranno lontano, quei disgraziati. Immobile, sulla torretta, Todaro li osserva in silenzio.
C’è una legge spietata nella guerra di mare: i naufraghi si devono lasciare al loro destino. La nave che ha affondato un’altra nave deve fuggire al più presto dal luogo del combattimento, per non rischiare di essere presa in trappola dalle altre navi che stanno accorrendo sul posto.
Gli uomini di Todaro aspettano con ansia l’ordine di tagliare la corda, scrutano l’orizzonte dove possono apparire i paurosi pinnacoli di fumo dei cacciatorpediniere.
Ma in quell’uomo dalla barba caprina, immobile sulla torretta, non c’è soltanto il coraggio e l’astuzia. C’è qualcos’altro che i suoi uomini scoprono in quel momento. Ordina: – “Andiamoli a prendere”.
Il sommergibile accosta alla scialuppa, una sagola vola verso cinquanta mani protese. C’è un ferito che prega ad alta voce, in spagnolo. Un altro piange.
La scialuppa è legata saldamente alla poppa del sommergibile, che riprende a navigare lentamente. Todaro spera di incrociare una nave neutrale a cui affidare i naufraghi, o almeno che il mare si calmi un poco, e permetta a quei disgraziati di remare verso un’isola con qualche speranza.
Il mare, invece, rafforza. Le onde sono montagne liquide che si abbattono sulle teste con vortici di schiuma. La scialuppa è un catino pieno d’acqua. Un cavallone le dà il colpo di grazia, sfasciandola.
Todaro e i suoi ripescano i ventisei naufraghi con corde e biscagline. Ora sono tutti sul ponte, a rabbrividire con i vestiti incollati addosso. Il capitano del Kabalo, inglese, stringe una grossa scatola metallica. Ci sono centomila sterline, 250 milioni circa.
”Sentite” – gli dice bruscamente Todaro. – Nello scafo non ho assolutamente posto per ventisei persone. Qui sul ponte le onde vi spazzeranno via in pochi minuti. C’è una sola soluzione: la gabbia sotto la torretta. Finchè il mare è forte, sarete a mollo come spugne. Speriamo che si calmi. Però è chiaro che io ho un dovere da compiere: salvare il mio sottomarino. Perciò se un aereo mi attaccherà o una nave da guerra mi verrà contro, io dovrò ordinare l’immersione. Per voi sarà finita, esattamente come se vi buttassi a mare ora. E’ crudele, ma è l’unica cosa soluzione. Tenterò di sbarcarvi all’isola del Sale, nell’arcipelago del Capo Verde. Pregate che nessuno ci sbarri la strada”.
Per due giorni e due notti il Cappellini viaggia in emersione. Nella gabbia (una specie di grossa scatola di ferro aperta al vento e alle onde) i ventisei pregano davvero, tra il fragore dei marosi e le staffilate di schiuma che li investono.
Sull’isola del Sale ci sono fortificazioni inglesi. Se avvisteranno il sommergibile italiano, i cannoni spareranno. Ma Todaro ha fatto trenta e farà anche trentuno. In piena notte mette in mare il battellino pneumatico. Cinque per volta, i naufraghi raggiungono la spiaggia.
Prima che il Capitano inglese parta con l’ultimo turno, Todaro gli consegna la scatola di metallo che ha custodito nella sua cabina, e lo prega di controllare se il denaro ci sia tutto. Allora un nero che possiede soltanto una mela (l’ha presa dal Kabalo prima di saltare in acqua, e l’ha custodita gelosamente in questi due giorni) se la strofina sui pantaloni per renderla lucida, e la porge a Todaro: “Siete un generoso, signore”.
Se Todaro si attende congratulazioni, si sbaglia di grosso. L’ammiraglio tedesco Doenitz, che comanda la guerra sottomarina, lo chiama a rapporto, e messolo sull’attenti, lo investe con un colossale cicchetto.
“Voi siete un valoroso, ma soprattutto un pazzo! Ci sono due cose che non riesco assolutamente a capire. Voi comandate un sommergibile e invece preferite fare la guerra di superficie. Questo sarebbe ancora tollerabile: potrei affidarvi il comando di un incrociatore tedesco. Ma voi sareste capace di farlo andare a picco per raccogliere i naufraghi nemici. E questo è intollerabile! La guerra e guerra, i naufraghi sanno qual è il loro destino. Voi avete rischiato l’affondamento del sommergibile per uno stupido sentimentalismo. Nessun ufficiale tedesco avrebbe agito come voi.”
Todaro sente salire la mosca al naso, e risponde freddo:
“Il fatto è, ammiraglio, che io in quel momento sentivo sulla schiena il peso di molti secoli di civiltà. Un ufficiale tedesco, forse, non avrebbe sentito quel peso”.
Doenitz sussulta. Todaro capisce che può finire dritto agli arresti. Ma il tedesco ammira troppo il coraggio, anche quello che non capisce. E spianando la faccia in un sorriso conclude: “Mi sono meritato questa risposta” – e gli tende la mano.
Mentre torna da una missione contro il porto di Bona a bordo di un peschereccio, si addormenta per qualche minuto in cabina. Un aereo inglese sventaglia una raffica di mitraglia. Un proiettile, trapassando la parete della cabina, colpisce Todaro alla testa. Passa dal sonno alla morte. Nel portafoglio trovano una lettera. Gli è arrivata attraverso il Ministero degli Esteri portoghese.
Dice: “Vorrei, se possibile, che queste righe fossero consegnate al comandante del sommergibile italiano che ha affondato il piroscafo Kabalo. Signore, felice è la nazione che ha degli uomini come voi. I nostri giornali hanno raccontato come avete agito nei confronti dell’equipaggio di una nave che il vostro dovere di soldato vi aveva imposto di affondare. C’è l’eroismo barbarico, e c’è il vostro… Siate benedetto per la vostra bontà, che fa di voi un eroe non solo dell’Italia, ma dell’umanità”. E’ firmata: “Una donna portoghese”.
Memorabile la lettera a lui destinata nel 1940 dalla madre di uno dei naufraghi da lui portati in salvo.
Recitava cosí :
“Al Ministero della Marina Italiana, Roma .
Lisbona, Novembre 1940 .
Vorrei, se possibile, che queste righe fossero trasmesse
al Comandante Italiano che ha affondato la Nave ” Kabalo ” :
Signore, fortunato il Paese che ha dei figli come voi !
I nostri giornali pubblicano il racconto
di come avete agito nei confronti di una nave
che il vostro dovere ha obbligato a silurare.
Vi è un eroismo barbaro e un altro davanti al quale l’anima si mette in ginocchio : questo è il vostro . . .
Siate Benedetto per la vostra bontá,
che fa di voi un Eroe non soltanto per l ‘ Italia ma per l ‘ Umanitá” .
Salvatore Todaro
il Don Chisciotte del mare
“Da mesi e mesi non faccio che pensare ai miei marinai che sono onorevolmente in fondo al mare. Penso che il mio posto è con loro”.
Così scrisse Salvatore Todaro il 12 dicembre 1942, un giorno prima di morire, in una lettera ad un suo amico salentino, che aveva vissuto con lui le incredibili vicende a bordo del sommergibile “Cappellini”. Todaro aveva solo trentaquattro anni e tutta una carriera davanti a sé, aveva una moglie giovane e due figlie piccolissime (la secondogenita vedrà la luce, a Livorno, dove tuttora vive, proprio in quel giorno dedicato a Santo Spiridione, un pecoraio di Cipro rozzo e incolto che grazie alla fede e al coraggio diventò vescovo di Trmithonte ) e non aveva nessun motivo per desiderare la morte.
Todaro si trovava nel porto di La Galite, in Tunisia, a bordo del piropeschereccio Cefalo, un nome emblematico, mitico, che rievoca la leggenda del bellissimo cacciatore che uccide per errore la propria moglie e poi, pazzo di dolore, si getta in mare. Forse, chissà, anche lui riteneva di aver fatto un errore fatale nella sua ultima sanguinosa battaglia in Atlantico, una lunga e impari lotta condotta in superficie tra il suo sommergibile Cappellini e l’Emaueus, una grossa nave mercantile inglese trasformata in una sorta di incrociatore ausiliario, carica di truppe destinate in Africa, assai ben armata, con diversi cannoni a lunga gittata.
Che cominciano a bersagliare il Cappellini su di un mare in tempesta le cui onde sono come frustate per il sommergibile italiano, lo spazzano da prora a poppa, lo sballottano come un sughero, asteria o osso di seppia. Ma alla fine Todaro, nonostante tutto, prevale e riesce ad affondare quel finto mercantile inglese carico di oltre tremila soldati. Che naufragano. Molti di essi moriranno, inghiottiti dalle onde gelide. E insieme a loro moriranno molti marinai dell’equipaggio.
Stavolta Todaro non li può aiutare, non può fare nulla per loro. Non ha a disposizione neppure una lancia di salvataggio e inoltre stanno sopraggiungendo gli aerei e le navi inglesi . Deve far presto a squagliarsela e non è per nulla facile. Il sommergibile è assai malandato, ci sono avarie un po’ da tutte le parti e naviga in superficie. E’ un’impresa sfuggire al tiro incrociato degli inglesi, che lo hanno ormai avvistato.
Todaro opera una immersione di fortuna e cerca scampo sul fondo marino. Dopo varie peripezie riesce a salvarsi e a far ritorno a Bordeaux, dov’è la base dei sommergibili italiani. Ma quella battaglia denominata di “Freetown” segna il limite, il crinale dell’ascesa di Salvatore Todaro, il Don Chisciotte del mare . Quella vicenda lo aveva mutato profondamente. Qualcosa si era spento in lui, qualcosa di sacrale si era rotto dentro di lui.
Sacerdote del mare
Chi lo ha conosciuto bene lo ricorda come un asceta, un mistico, un sacerdote che appartiene ad una religione che ha per tempio il mare e per altare il sommergibile . Altri dicono che era come un antico spartano: sobrio, schivo, introverso, solitario, con un portamento fiero e un’andatura rigida, quasi altera.
In realtà quell’andatura era dovuta al fatto che Todaro portava il busto, a causa di una frattura alla colonna vertebrale, riportata quando volava sugli idrovolanti come osservatore aereo. Oggi diremmo che Todaro era un invalido a tutti gli effetti e forse avrebbe il diritto alla pensione di invalidità, ma lui non voleva sentirlo dire neppure per scherzo. Non accettava neppure che si accennasse alla sua menomazione, peraltro a conoscenza di tutti i medici che lo avevano sottoposto a visita sanitaria, per timore di essere relegato al servizio sedentario.
Del resto la cultura del sacrificio gli era connaturata e l’Accademia Navale di Livorno la sviluppò oltre ogni limite. Era – come scrisse un giornalista dell’epoca – “un soldato nel più puro senso della parola, un soldato nel più segreto fondo del suo spirito e lo dimostrò subito dopo quell’incidente applicandosi come un matto, giorno e notte, allo studio dei sommergibili e dei mezzi d’assalto per diventare, in capo a pochi anni, uno dei più grandi esperti e specialisti del settore”.
La vicenda del “Kabalo”
Allo scoppio della guerra ottiene il comando del sommergibile Cappellini, destinato in Atlantico. Todaro è tra i primi ad attraversare lo stretto di Gibilterra e a raggiungere Bordeaux, dove è la base del Comando dei sommergibili italiani, Betasom. Qui gli basta qualche mese per diventare famoso in tutta Europa.
Per la cronaca è il pomeriggio del 15 ottobre 1940, quando avvista, con il periscopio, un grosso piroscafo belga, al servizio degli inglesi, il Kabalo. Lo affonda con il cannone, poi rimorchia i ventisei naufraghi e, incredibilmente, navigando in emersione ed esponendosi a tutti i rischi possibili, li trasporta in mare per ben quattro giorni e quattro notti.
Alla fine di varie peripezie e dopo che per l’ennesima volta si è spezzato il cavo di rimorchio, Todaro decide di prendere a bordo i naufraghi. E’ un’altra “follia”, ma lui prosegue nell’estremo tentativo di salvare quegli uomini e dopo aver percorso oltre 750 miglia riesce finalmente a farli approdare, in sicurezza, sulla costa delle Azzorre . Si salvano tutti. E’ un miracolo. Si parla di lui su tutti i giornali d’Europa: E’ ormai il “Gentiluomo del mare”, o il “Don Chisciotte del Mare”.
IL COMANDANTE FECIA DI COSSATO
“Se qualcuno vuole sbarcare, lo dica subito. Io intendo partire con gente pronta a tutto. Se qualcuno non si sente, che venga avanti: non ha nulla da vergognarsi”. Allineati sulla banchina della base di Bordeaux, gli uomini del sommergibile Enrico Tazzoli restano immobili. Il nuovo comandante Capitano di corvetta Carlo Fecia di Cossato (dei Conti di Cossato) passa davanti a loro, li guarda a uno a uno negli occhi. “Grazie”, dice semplicemente.
Carlo Fecia di Cossato nasce a Roma il 25 settembre 1908, figlio di Carlo e di Maria Luisa Genè. La famiglia era una gran sostenitrice della Monarchia Sabauda. Il fratello Luigi (tenente di vascello) è stato medaglia d’argento al valor militare per il servizio prestato in Somalia nel 1925. Il padre, ufficiale di Marina, rimane in servizio fino al 1912 con il grado di Capitano di Vascello, perdendo l’uso di un occhio durante la sua permanenza in Cina.
Biondo, magro, occhi chiari, è una figura leggendaria nella guerra subacquea con l’appellativo di “Corsaro dell’Atlantico”. I suoi marinai lo ricordano cordiale con tutti ma riservato. Ma è capace di trasformarsi non appena sono in vista azioni: gli occhi si illuminano, i gesti si fanno rapidi, la voce rivela una volontà di ferro.
E’ marinaio da sempre: dopo gli studi al Regio Collegio Militare di Moncalieri, viene ammesso all’Accademia Navale di Livorno e nel 1928 consegue la nomina a Guardiamarina.
A 32 anni diventa Capitano di Corvetta e comandante di sommergibile. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale è al comando del sommergibile Ciro Menotti, di stanza a Messina. Il 5 aprile del 1941 assume il comando del sommergibile Enrico Tazzoli, in sostituzione del Capitano Vittore Raccanelli. Due giorni dopo prende il mare con un equipaggio di soli volontari (così ha voluto il suo comandante), e ha inizio una serie di imprese da romanzo salgariano.
La vita a bordo di un sommergibile non è facile, soprattutto durante le immersioni: il calore tropicale che i ventilatori non riescono a combattere, la scarsa possibilità di movimento e il silenzio quasi assoluto, sia per non permettere ad eventuali navi avversarie in superficie di rilevare la posizione del sommergibile, sia per limitare il consumo di ossigeno. I cibi freschi sono rari, l’acqua scarsa e talvolta imbevibile.
Ma il morale dei marinai non si abbatte tanto facilmente. Demoralizzanti sono piuttosto le lunghe crociere su un oceano deserto, una nave che sfugge all’attacco, la mancata intercettazione di un convoglio che impedisce di emergere. Tutto questo è superato grazie all’affetto e all’ammirazione profonda che legano i marinai al loro comandante. E i motivi sono molti: l’audacia nella condotta di guerra ispirata alla tattica dell’abbordaggio, la puntigliosità e precisione che spinge Carlo Fecia di Cossato a riferire sempre i nomi esatti delle navi affondate.
Fra le sue qualità, anche la modestia: ad ogni vittorioso ritorno a Betasom (la mitica base dei sommergibili atlantici italiani a Bordeaux) la banda tedesca ce la mette tutta a soffiare negli ottoni, e poi fiori, applausi, e discorsi che si sprecano. Ma il comandante stringe mille mani timido e con un mite sorriso. E i marinai apprezzano anche la sua umanità: si adoperava sempre per soccorrere i naufraghi delle navi affondate (così come il suo amico e collega Salvatore Todaro).
A bordo del Tazzoli, Carlo Fecia di Cossato compie sei lunghe missioni nell’Oceano Atlantico, spingendosi fino alle coste americane, e affondando ben 16 navi mercantili, per un totale di quasi 83.000 tonnellate.
Al rientro dall’ultima missione, che si svolge nell’Atlantico fra il 5 novembre 1942 e il 1° febbraio 1943, i mitraglieri del Tazzoli abbattono un quadrimotore inglese che attacca il sommergibile. Per quest’ultima missione oceanica a Carlo Fecia di Cossato sarà conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
«Valente ed ardito comandante di sommergibile, animato fin dall’inizio delle ostilità, da decisa volontà di successo, durante la sua quinta missione di guerra in Atlantico affondava 4 navi mercantili per complessive 20.516 tonnellate ed abbatteva , dopo dura lotta un quadrimotore avversario. Raggiungeva così un totale di 100.000 tonnellate di naviglio avversario affondato stabilendo un primato di assoluta eccezione nel campo degli affondamenti effettuati da unità subacquee.
Successivamente comandante di torpediniera, alla data dell’armistizio dava nuova prova di superbo spirito combattivo attaccando, con una sola unità, sette unità germaniche di armamento prevalente che affondava a cannonate dopo aspro combattimento, condotto con grande bravura ed estrema dedizione.
Esempio fulgido ai posteri di eccezionali virtù di comandante e di combattente, e di assoluta dedizione al dovere.
Oceano Atlantico, 5 novembre 1942 – 1 febbraio 1943 – Alto Tirreno, 9 settembre 1943».
Nel febbraio del 1943, per motivi di salute, Carlo Fecia viene trasferito nel Mediterraneo, al comando della torpediniera Aliseo. Il Tazzoli, disarmato ed adibito a nave da trasporto per la rotta dell’Estremo Oriente, scompare nell’Oceano Indiano tra il 18 e il 24 maggio 1943, portando con sé 70 uomini tra marinai e ufficiali. La tragedia lo segna profondamente.
L’8 settembre lo coglie nel porto di Bastia, in Corsica. Fedelissimo al Re, obbedisce al suo ordine di consegnare la nave al nemico, convinto di non dover ammainare la bandiera. Al comando dell’Aliseo, armata soltanto di tre cannoni da 100 e di sei mitragliatrici da 20, ingaggia un conflitto a fuoco contro sette unità germaniche, che vengono affondate.
Giunto a Malta, si rende conto che le navi da battaglia sono alla fonda, completamente disarmate e trasformate in campo di concentramento per l’equipaggio. Nonostante si renda conto che il Re aveva tradito i valori della Patria e dell’onore, gli rimane ancora fedele. Nel maggio del 1944, quando la Marina cambia procedure richiedendo il giuramento al nuovo governo del provvisorio “Regno del Sud” invece che al Re, chiede di essere congedato. L’Ammiraglio Nomis di Pollone chiama a rapporto gli ufficiali, invitandoli ad obbedire, perché la Marina è l’unica forza compatta della Nazione e bisogna mantenerla tale.
Fecia di Cossato prende la parola e dichiara: “No,signor Ammiraglio, il nostro dovere è un altro. Io non riconosco come legittimo un governo che non ha prestato giuramento al re. Pertanto non eseguirò gli ordini che mi vengono da questo governo. L’ordine è di uscire in mare domattina al comando della torpediniera Aliseo. Ebbene l’Aliseo non uscirà”. Fecia viene fatto sbarcare dall’Aliseo e messo agli arresti nella fortezza. La mattina successiva gli equipaggi si schierano dalla sua parte e si rifiutano di prendere il mare. Carlo Fecia viene rimesso in libertà, ma gli viene tolto il comando dell’Aliseo.
In pochi mesi vede crollare intorno a sé tutti i valori nei quali ha sempre creduto: la Monarchia, la Patria, la Regia Marina. Non potendo raggiungere la famiglia al Nord, si trasferisce a Napoli, ospite di un amico, ma rifiuta gli incarichi di comando che gli vengono offerti dagli alleati. Il 27 agosto 1944 si toglie la vita, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Lascia una lettera-testamento indirizzata alla madre, un atto di accusa nei confronti di chi ha di fatto consegnato la flotta nelle mani del nemico.
DAL SITO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA CITO E LINK:
“Valente ed ardito comandante di sommergibile, animato fin dall’inizio delle ostilità, da decisa volontà di successo, durante la sua quinta missione di guerra in Atlantico affondava 4 navi mercantili per complessive 20.516 tonnellate ed abbatteva , dopo dura lotta un quadrimotore avversario. Raggiungeva così un totale di 100.000 tonnellate di naviglio avversario affondato stabilendo un primato di assoluta eccezione nel campo degli affondamenti effettuati da unità subacquee.
Successivamente comandante di torpediniera, alla data dell’armistizio dava nuova prova di superbo spirito combattivo attaccando, con una sola unità, sette unità germaniche di armamento prevalente che affondava a cannonate dopo aspro combattimento, condotto con grande bravura ed estrema dedizione.
Esempio fulgido ai posteri di eccezionali virtù di comandante e di combattente, e di assoluta dedizione al dovere.
Oceano Atlantico, 5 novembre 1942 – 1 febbraio 1943″
Alto Tirreno, 9 settembre 1943
Di seguito indico il link dove poter approfondire la lettura: https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/storia/la-nostra-storia/medaglie/Pagine/feciadicossato.aspx
Torno a raccontare del Comandante Fecia Di Cossato
La carriera anteguerra
Nato a Roma da una nobile famiglia piemontese sostenitrice della monarchia sabauda, dopo aver completato gli studi al Regio collegio militare di Moncalieri frequentò l’Accademia Navale di Livorno dalla quale nel 1928 uscì con il grado di Guardiamarina e subito imbarcato sul sommergibile Bausan.
Promosso Sottotenente di vascello nel 1929 fu destinato alla Cina e imbarcato sull’incrociatore Libia dove venne destinato al Distaccamento Marina di Pechino (Cina). Tornato in Italia nel 1933, frequentò il Corso superiore da Tenente di Vascello e a bordo dell’incrociatore Bari, posto alla difesa del porto di Massaua prese parte alla Guerra d’Etiopia; successivamente, imbarcato su unità sommergibile, partecipò a due missioni speciali nelle acque spagnole durante la guerra civile spagnola.
Nel 1939 frequentò la Scuola Sommergibili di Pola e a 32 anni venne nominato capitano di corvetta e comandante di sommergibile.
Al comando dell’Enrico Tazzoli
Il 5 aprile 1941 Fecia di Cossato assunse il comando dell’Enrico Tazzoli in sostituzione di Vittore Raccanelli, e lo stesso giorno fu nominato come secondo ufficiale a bordo del Tazzoli il tenente di vascello Gianfranco Gazzana Priaroggia che si sarebbe successivamente distinto al comando del sommergibile Archimede e soprattutto del Leonardo Da Vinci. Fecia di Cossato volle un equipaggio composto da soli volontari.
«Se qualcuno vuole sbarcare lo dica subito. Io intendo partire con gente pronta a tutto.»
(Carlo Fecia di Cossato rivolto all’equipaggio dell’Enrico Tazzoli])
I primi affondamenti
Il 7 aprile 1941 prese il mare diretto al largo dell’Africa Occidentale e il 12 aprile attaccò due incrociatori britannici. Subito dopo l’attacco si immerse per sfuggire all’altro incrociatore e quando riemerse sul luogo dell’attacco Cossato rinvenne una vasta macchia di nafta e vide la sagoma di un incrociatore allontanarsi. Sul libro di bordo annotò soltanto l’avvenuto attacco e da parte inglese anche dopo la guerra non arrivarono conferme.
Il 15 aprile affondò il piroscafo da carico inglese (ex francese) Aurillac (4733 tsl) cui diede poi il colpo di grazia con altri due siluri e col cannone. L’Aurillac divenne la prima vittoria di Fecia Da Cossato in qualità di comandante. Il 7 maggio segue il piroscafo norvegese Fernlane e il 9 la petroliera, sempre norvegese, Alfred Olsen. La Alfred Olsen fu un avversario particolarmente ostico e, dopo due giorni di inseguimento, per affondarla fu necessario ricorrere a tutti i siluri ancora disponibili e cento colpi di artiglieria; il fatto costrinse il Tazzoli a fare ritorno alla base. Lungo la strada, fu attaccato da un aereo nemico, ma la reazione delle mitragliatrici di bordo del sottomarino costrinse l’aereo ad allontanarsi in fiamme.
Il 25 maggio il Tazzoli rientrò a Bordeaux dove Fecia di Cossato fu decorato con la medaglia d’argento al Valor Militare. Il 15 luglio 1941 Fecia di Cossato guidò il Tazzoli in una nuova missione nel corso della quale, il 12 agosto, affondò il piroscafo inglese Sangara già danneggiato da un precedente attacco di U-Boot[8] e il 19 la petroliera norvegese Sildra per rientrare poi alla base l’11 settembre. In questa seconda missione Fecia di Cossato fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare e da parte dei tedeschi con la Croce di ferro di seconda classe.
Il salvataggio dei naufraghi dell’Atlantis e del Python
Nel dicembre del 1941, partecipò, partendo da Bordeaux, al salvataggio di oltre 400 naufraghi che erano a bordo della nave di rifornimento tedesca Python, affondata al largo delle isole di Capo Verde; il Python aveva a bordo anche i naufraghi della famosa nave corsara Atlantis che era stata affondata precedentemente.
Gli U-Boot tedeschi risultarono insufficienti ad accogliere tutti i naufraghi pertanto il comando tedesco si risolse a chiedere l’intervento anche dei sommergibili italiani che avrebbero atteso i naufraghi al largo delle isole di Capo Verde.
I sommergibili che si trovavano a Betasom sbarcarono quindi gran parte dell’equipaggio ed imbarcarono ingenti quantità di viveri e acqua. A bordo del Tazzoli furono imbarcati circa settanta naufraghi tra cui il Vice Comandante tedesco dell’Atlantis Ulrich Mohr, autore dell’omonimo libro in cui dopo la guerra descrisse l’epopea della nave corsara tedesca, e che descrisse l’aiuto dato dal Tazzoli e rilevò il grande affiatamento tra l’equipaggio e il suo comandante.
La notte di Natale il Tazzoli, che navigava in superficie approfittando del buio, fu costretto ad una rapida immersione quando fu attaccato da un solitario aereo nemico. I naufraghi furono sbarcati nella base tedesca di Saint-Nazaire dove già li attendeva il Fregattenkapitän (Capitano di fregata) dell’Atlantis Berhard Rogge che espresse grande ammirazione per il comandante italiano. Al ritorno a Betasom Fecia di Cossato fu insignito direttamente dall’ammiraglio Dönitz con l’importante decorazione tedesca della Croce di ferro di 1ª Classe. La stessa decorazione fu assegnata ai comandanti degli altri tre sommergibili impiegati nell’operazione di recupero dei naufraghi dell’Atlantis. Comandante De Giacomo del sommergibile Torelli, comandante Olivieri del sommergibile Calvi, comandante Giudice del sommergibile Finzi.
GIANFRANCO GAZZANA DI PRIAROGGIA
Dopo essere stato allievo dell’Accademia Navale di Livorno dal 1931, conseguendo nel gennaio 1935 la nomina a guardiamarina e nel gennaio 1936 la promozione a sottotenente di vascello ed avere effettuato un periodo di imbarco sugli incrociatori pesanti Trento e Trieste, nel 1937 entrò a far parte dei sommergibilisti partecipando a due missioni speciali nelle acque spagnole durante la guerra civile, a bordo del Millelire un sommergibile della Classe Balilla, per assumere nell’ottobre del 1938 il comando del Malachite un sommergibile della Classe Perla a bordo del quale iniziò le operazioni militari nella seconda guerra mondiale.
Dopo aver conseguito la promozione a tenente di vascello si imbarcò con l’incarico di ufficiale in seconda, prima sul Durbo e successivamente sul Tazzoli, sul quale imbarcò il 5 aprile 1941 quando ad assumere il comando del battello fu il capitano di corvetta Carlo Fecia di Cossato, e a bordo del quale contribuì all’affondamento di dodici navi per complessive 68.000 tonnellate.
Lasciato il Tazzoli per assumere il comando del sommergibile Archimede, dal 10 agosto 1942 assunse il comando del sommergibile Leonardo da Vinci, dislocato come il Tazzoli nella Base Atlantica di Betasom a Bordeaux, contribuendo alla fama del battello. I due sommergibili Tazzoli e Leonardo Da Vinci stabilirono due primati: il primo quello del maggior numero di navi nemiche affondate, il secondo quello del maggior tonnellaggio di naviglio nemico affondato.
Sempre dal sito della Marina Militare Italiana ho reperito altre informazioni che vado a citare:
“Ufficiale sommergibilista dotato di superiori qualità di animo e di elevata capacità tecnica quale ufficiale in seconda di unità operante in acque oceaniche, contribuiva efficacemente con metodica perseveranza ed aggressività all’affondamento di 12 navi per complessive 67.972 tonnellate.
Confermava successivamente quale comandante, le sue magnifiche doti di uomo di guerra e di mare, imponendosi in ogni occasione per valore e perizia tecnica e marinaresca. Citato ed ammirato dallo stesso avversario per la sua abilità ed il suo spirito cavalleresco, nel corso di varie azioni affondava 44.957 tonnellate di naviglio nemico e silurava un incrociatore pesante. Durante missione di guerra, protrattasi 93 giorni, superando brillantemente infinite difficoltà, raggiungeva le acque dell’Oceano Indiano, ove attaccava e distruggeva 5 grossi piroscafi e una petroliera stazzanti complessivamente 57.831 tonnellate, stabilendo così un primato assoluto di tonnellaggio affondato in una sola missione, da sommergibili nazionali. Nella navigazione di rientro alla base, il sommergibile, colpito a morte dopo strenua lotta contro preponderanti forse nemiche, si inabissava col valoroso equipaggio e con l’eroico comandante.
Oceano Atlantico, 23 maggio 1943.”
Il resto delle informazioni le potrete leggere direttamente su questo link: https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/storia/la-nostra-storia/medaglie/Pagine/GazzanaPriaroggia.aspx
Nella missione effettuata nelle acque dell’Oceano Indiano dal 7 ottobre al 6 dicembre 1942, conseguì l’affondamento di 4 navi mercantili, per complessive 26.042 tsl.
Nel corso di una missione iniziata il 20 febbraio 1943, incontrò il 14 marzo il transatlantico britannico Empress of Canada (21.517 tsl), 330 miglia a sud-ovest di Capo Palmas (Liberia): lanciò tre siluri con i tubi di poppa e due delle armi colpirono la nave, che andò a fondo; si trattò del maggior successo mai conseguito da un sommergibile italiano. Il 20 Marzo 1943 il comandante Mario Rossetto alla guida del sommergibile Finzi rifornisce il Leonardo Da Vinci. Nella navigazione di rientro alla base, il 23 maggio 1943, il Leonardo da Vinci venne affondato a circa 300 miglia a ovest di Cabo Fisterra al largo delle coste spagnole, dal cacciatorpediniere Active e dalla fregata Ness della Royal Navy, inabissandosi con tutto l’equipaggio. In quella seconda missione aveva affondato sei navi per 58.973 tsl.
Complessivamente sotto il comando di Gazzana Piraroggia furono affondate 90.601 tonnellate di naviglio, classificandosi al 42º posto (primo tra gli italiani e quarto tra i non tedeschi) tra gli assi del sommergibilismo della seconda guerra mondiale. Pochi giorni prima, per il coraggio e il valore dimostrato, il 6 maggio 1943, era stato promosso per merito di guerra, al grado di capitano di corvetta. Per il suo sacrificio a Gianfranco Gazzana-Priaroggia venne conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
LISTA DEI SOMMERGIBILI AFFONDATI
Dei 32 sommergibili operanti in Atlantico 16 andarono perduti
Tarantini, affondato vicino a Bordeaux per siluramento il 15 dicembre 1940
Faà di bruno, affondato al largo dell’Irlanda, tra il 31 ottobre 1940 e il 5 gennaio 1941
Nani, affondato nell’Atlantico settentrionale, tra il 3 gennaio e il 20 febbraio 1940
Marcello, affondato nell’Atlantico settentrionale, tra il 7 febbraio e il 6 aprile 1941
Glauco, autoaffondato nell’Atlantico centrale, Il 27 giugno 1941
Bianchi, affondato per siluramento nel Golfo di Biscaglia il 25 luglio 1941
Baracca, affondato per speronamento nel Golfo di Biscaglia l’8 settembre 1941
Malaspina,Affondato per cause imprecisate, fra l’8 settembre e il 18 novembre 1941
Ferraris, autoaffondato nell’Atlantico centrale,Il 25 ottobre 1941
Marconi,Affondato nell’Atlantico centro-orientaleTra il 28 ottobre e il 4 dicembre 1941
Caldi,Auto affondato nell’Atlantico centrale, Il 15 luglio 1942
Morosini, affondato per cause imprecisate fra l’8 agosto agosto e il 10 settembre 1942
Archimede, colpito da bombe da aerei nelle acque brasiliane il 15 aprile 1943
Tazzoli, affondato per cause imprecisate nel Golfo di Biscaglia, tra il 17 maggio Maggio e il 31 agosto 1943
Da Vinci, affondato nella zona di capo Finisterre Il 23 maggio 1943
Barbarigo, affondato nell’Atlantico centro-orientale fra il 16 giugno e il 31 agosto 1943
Eroi Senza Memoria BETASOM si conclude qui. Tornate a visitare questo blog: http://www.alessandrolopez.it
E per concludere questo articolo Dedicato agli eroi senza memoria Vorrei citare una frase del grande Genio:
“Io non so con quali armi sarà combattuta la terza guerra mondiale, ma so che la quarta Sarà combattuta Con le pietre e bastoni”
Albert Einstein
Che non succeda mai!
Onori a tutti i Caduti!
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