EROI SENZA MEMORIA – Tutti erano fratelli.
Cari lettori, eccoci giunti al secondo appuntamento con la rubrica “Eroi senza memoria”, Un appassionante percorso storico tra le più drammatiche pagine delle guerre e delle battaglie che hanno caratterizzato per lunghi anni il nostro continente europeo.
La mia ricerca è continuata in modo costante, sempre con la collaborazione del collega Tenente William Rossi, che mi ha donato un vero archivio di notizie reperite in rete e presso le principali Associazioni Combattentistiche, come ho già scritto nel mio precedente articolo.
Un percorso emozionante nella memoria, per comprendere il contesto, le cause, le evoluzioni e i Reparti coinvolti, per poi andar a leggere pagine scritte direttamente dai soldati sul fronte.
EROI SENZA MEMORIA – Tutti erano fratelli. Il blog di oggi è dedicato alla battaglia di Nikolaevka. Vediamola nei dettagli storici:
Fronte russo, gennaio 1943
Dall’autunno 1942 il Corpo d’Armata Alpino, costituito dalle tre Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, era schierato sul fronte del fiume Don, affiancato da altre Divisioni di fanteria italiane, da reparti tedeschi e degli altri alleati, rumeni e ungheresi.
Il 15 dicembre, con un potenziale d’urto sei volte superiore a quello delle nostre Divisioni (basti pensare che impiegarono 750 carri armati e noi non avevamo né carri, né efficienti armi controcarro), i Russi dilagarono nelle retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca schierate più ad Est. Esse dovettero sganciarsi dalle posizioni sul Don, iniziando quella terribile ritirata che, su un terreno ormai completamente in mano al nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una perdita di circa 55.000 uomini tra Caduti e prigionieri.
L’accerchiamento:
Mentre le Divisioni della Fanteria si stavano ritirando, il Corpo d’Armata Alpino ricevette l’ordine di rimanere sulle posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato.
Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte tenuto dagli alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere il Corpo d’Armata Alpino in una vasta e profonda sacca.
Il ripiegamento:
Davanti alla possibile catastrofe rimaneva un’unica alternativa: il ripiegamento immediato. La sera del 17 gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, ebbe inizio il ripiegamento dell’intero Corpo d’Armata Alpino di cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali.
La marcia del Corpo d’Armata Alpino verso la salvezza fu un evento drammatico, doloroso ed allucinante, costellato da innumerevoli episodi di valore, di grande solidarietà, in cui circa 40.000 uomini si batterono disperatamente, senza sosta, per 15 interminabili giorni e per 200 chilometri.
La battaglia di Nikolajewka:
Fu così che dopo 200 chilometri di ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, sempre aspramente contrastati dai reparti nemici e dai partigiani sovietici, il mattino del 26 gennaio 1943 gli alpini della Tridentina, alla testa di una colonna di 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giunsero davanti a Nikolajewka. Forti del tradizionale spirito di corpo gli alpini del generale Reverberi, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di fucile e bombe a mano il paese annientando gli agguerriti difensori annidati nelle case.
Da sinistra nella foto in alto: il tenente colonnello Policarpo Chierici comandante del Val Chiese, il tenente Danilo Bajetti (futuro Presidente della Sezione di Brescia), il colonnello Paolo Signorini comandante del 6° Rgt. Alp., e il generale Luigi Reverberi a rapporto a Nikolajewka il 26 gennaio 1943
Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una modesta collinetta, protetti da un terrapieno della ferrovia che correva pressoché attorno all’abitato e che costituiva un’ottima protezione per il nemico. Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli alpini ammontavano a circa una divisione. Verso le ore 9.30 venne ordinato di attaccare. In un primo tempo si lanciarono all’assalto gli alpini superstiti del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II Battaglione misto genio della Tridentina, appoggiati dal fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e da tre semoventi tedeschi.
La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta; in più punti gli alpini riuscirono a salire la contro scarpata ed a raggiungere le prime isbe dell’abitato dove sistemarono immediatamente le mitragliatrici, ma le perdite furono gravissime per il violento fuoco dei Russi. Nonostante le sanguinose perdite, gli alpini continuarono a combattere con accanimento: fu un susseguirsi di assalti e contrassalti portati di casa in casa; venne conquistata la stazione ferroviaria e un plotone del Val Chiese riuscì ad arrivare alla chiesa.
La reazione russa fu violentissima: gli alpini furono costretti ad arretrare e ad abbarbicarsi al terreno in attesa di rinforzi. Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del battaglione Edolo, del Morbegno e del Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e Val Camonica ed altre modeste aliquote di reparti della Julia col Battaglione L’Aquila: anch’essi vennero inviati nel cuore della battaglia.
Il nemico, appoggiato anche dagli aerei che mitragliavano a bassa quota, opponeva una strenua resistenza. Sul campanile della chiesa c’era una mitragliatrice che faceva strage di alpini. La neve era tinta di rosso: su di essa giacevano senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti.
Nonostante gli innumerevoli atti di valore personale di ufficiali, sottufficiali e soldati, spinti sino al cosciente sacrificio della propria vita, la resistenza era ancora attivissima e l’esito della battaglia era non del tutto scontato.
La situazione si faceva sempre più tragica perché il sole incominciava a scendere sull’orizzonte ed era evidente che una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte.
Quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per rompere l’accerchiamento, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su un semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di “Tridentina avanti!” trascinava i suoi alpini all’assalto.
Il grido rimbalzò di schiera in schiera, passò sulle labbra da un alpino all’altro, scosse la massa enorme degli sbandati che, come una valanga, assieme ai combattenti ancora validi, si lanciarono urlando verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia, la superarono travolgendo la linea di resistenza sovietica. I Russi sorpresi dalla rapidità dell’azione dovettero ripiegare abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i materiali. Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo la battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti. Tutti gli alpini, senza distinzione di grado e di origine, diedero un esempio di coraggio, di spirito di sacrificio e di alto senso del dovere.
In salvo:
Dopo Nikolajewka la marcia degli alpini proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove giunsero il 30 gennaio e furono finalmente in salvo, poterono alloggiare e ricevere i primi aiuti. Il 31 con il passaggio delle consegne ai Tedeschi termina ogni attività operativa sul fronte russo.
Fino al 2 febbraio continuarono ad arrivare i resti dei reparti in ritirata. I feriti gravi vennero avviati ai vari ospedali, poi a Schebekino alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio.
La colonna della Tridentina riprese la marcia il 2 febbraio per giungere a Gomel il 1° marzo. Gli alpini percorsero a piedi 700 km e solamente alcuni, nell’ultimo tratto, poterono usufruire del trasporto in ferrovia.
Il rimpatrio:
Il 6 marzo 1943 cominciarono a partire da Gomel le tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo d’Armata Alpino; il giorno 15 partì l’ultimo convoglio e il 24 tutti furono in Patria.
Mentre per il trasporto in Russia del Corpo d’Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono 17. Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti: considerando che ciascuna divisione era costituita da circa 16.000 uomini, i superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense.
EROI SENZA MEMORIA – Tutti erano fratelli. Vediamo qualche altro approfondimento nella speranza di non essere ripetitivo ma di approfondire il tutto.
La battaglia di Nikolaevka (in russo: in russo: Бой под Николаевкой?, traslitterato: Boj pod Nikoláevkoj; AFI: [ˈboj pət nʲɪkɐˈɫajɪfkǝj]) combattuta il 26 gennaio 1943, durante la seconda guerra mondiale, fu un feroce scontro tra le forze di occupazione dell’Asse e le truppe sovietiche.
Ci fu da parte dei sovietici un attacco molto consistente che portò ad un caotico ripiegamento nella parte meridionale del fronte orientale, e costituì la fase cruciale e risolutiva della ritirata, determinando l’annientamento delle truppe italiane, decimate da morti, feriti e prigionieri, con una minima parte in grado di uscire dalla sacca.
La Storia e il contesto:
Campagna italiana di Russia.
Nel corso dei mesi precedenti, le forze sovietiche avevano accerchiato la 6ª Armata tedesca a Stalingrado (operazione Urano) e sbaragliato completamente le Armate romene e gran parte dell’8ª Armata italiana (operazione Piccolo Saturno).
La successiva offensiva Ostrogožsk-Rossoš’, sferrata il 12 gennaio 1943, sfondò le precarie linee difensive dell’Asse e portò al crollo del fronte sul fiume Don e alla ritirata.
Fondamentale per l’esito dello scontro conclusivo furono le due battaglie di Schelijakino e Warwàrowka, ove i reparti dell’artiglieria a cavallo (le Volòire), il Battaglione Alpino Morbegno, alcune batterie del Gruppo Bergamo ed altri reparti alpini, sacrificandosi quasi interamente distrussero gran parte dei mezzi corazzati russi disponibili in quel settore.
Gli ultimi resti delle forze italiane, tedesche e ungheresi, provate, oltre che dai combattimenti, dal gelido inverno russo, si ritrovarono ad affrontare alcuni reparti dell’Armata Rossa, asserragliatisi nel villaggio di Nikolaevka per bloccare la fuga dalla grande sacca del Don.
La battaglia:
Già dalle prime ore del mattino, la colonna formata dalle truppe italiane in ritirata, cui erano aggregati diversi reparti delle altre potenze dell’Asse (specialmente tedeschi e ungheresi), venne fatta oggetto di un bombardamento da parte di quattro aerei dell’Armata Rossa.
Alla 2ª Divisione alpina “Tridentina”, l’unica delle divisioni italiane ancora in grado di combattere, fu assegnato il compito di iniziare l’assalto al villaggio. Particolarmente significative durante questo attacco furono le azioni dei battaglioni “Vestone”, “Verona”, “Valchiese” e “Tirano”. Malgrado lo sbandamento che sarebbe stato comprensibile per delle truppe in ritirata, gli italiani riuscirono a sostenere lo scontro con i sovietici, maggiormente dotati di armi pesanti ed artiglieria.
In serata si unì alle forze all’attacco il Battaglione “Edolo” contribuendo allo sforzo degli altri uomini della “Tridentina”, guidati dal generale Luigi Reverberi, e riuscendo così ad aprire un varco fra le linee sovietiche, grazie all’impiego dell’unico carro armato tedesco ancora utilizzabile ed alla disperata lotta per sfuggire all’accerchiamento.
Dalla motivazione della medaglia d’oro al valor militare conferita a Reverberi per il suo comportamento in questa battaglia si legge:
«Alla testa di un manipolo di animosi, balza su un carro armato e si lancia leoninamente, nella furia della rabbiosa reazione nemica, sull’ostacolo, incitando con la voce e il gesto la colonna che, elettrizzata dall’esempio eroico, lo segue entusiasticamente a valanga coronando con una fulgida vittoria il successo della giornata ed il felice compimento del movimento. Esempio luminoso di generosa offerta, eletta coscienza di capo, eroico valore di soldato.»
Le perdite italiane furono altissime ma le truppe dell’Asse, pur decimate e completamente disorganizzate, riuscirono a raggiungere Šebekino, il 31 gennaio 1943, località al di fuori della “tenaglia” russa.
Le perdite:
Il 16 gennaio 1943, giorno di inizio della ritirata, il Corpo d’Armata Alpino contava 61 155 uomini. Dopo la battaglia di Nikolaevka si contarono 13 420 uomini usciti dalla sacca, più altri 7 500 feriti o congelati. Circa 40 000 uomini rimasero indietro, morti nella neve, dispersi o catturati. Migliaia di soldati vennero presi prigionieri durante la ritirata e radunati dai sovietici in vari campi. Uno dei più tristemente noti fu quello di Rada, nei pressi della città di Tambov[3]. Solo una percentuale minima di questi prigionieri farà ritorno in Italia a partire dal 1945.
Tributi alla memoria:
Fra gli alpini che hanno preso parte a questa battaglia, si ricordano Giulio Bedeschi, don Carlo Gnocchi (come cappellano militare), Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli.
Giulio Bedeschi romanzò (sulla base di fatti storici realmente accaduti) la ritirata di Russia narrando con nomi fittizi ma in prima persona, i fatti della spedizione italiana in Russia, con le vicende riguardanti la disfatta culminanti nella battaglia di Nikolaevka nel libro del 1963 Centomila gavette di ghiaccio.
Nuto Revelli, che faceva parte del Battaglione Tirano, descrisse la battaglia, con i nomi dei protagonisti cambiati, nel suo libro Mai tardi. Diario di un alpino in Russia (1946). Lo stesso racconto, rivisto e con i nomi veri, entrò a far parte del suo successivo libro La guerra dei poveri (1962).
Mario Rigoni Stern scrisse di quest’episodio nel suo romanzo Il sergente nella neve, che nel 2007 fu riadattato teatralmente (Il sergente) da Marco Paolini[4]. In Ritorno sul Don, Rigoni Stern torna a visitare quei luoghi dopo circa trent’anni dalla prima volta in cui li aveva visti. Anche lo scrittore Eugenio Corti, che visse in prima persona la guerra sul fronte russo e la ritirata, ne riferisce nel suo libro Il cavallo rosso.
Lo scrittore e saggista Ottobono Terzi, conte di Sissa e Torlonia, ufficiale della Volòira ma, nell’ultima fase della ritirata, in forza al gruppo d’Artiglieria Alpina Bergamo, fu presente quel giorno a Nikolaewka e nel libro Warwarowka alzo zero, rende testimonianaza dello sfondamento finale, cui lui e i colleghi non poterono offrire supporto di fuoco per la perdita di obici ed esaurimento dei colpi.
A memoria, ogni anno tra gennaio e febbraio, in numerose città hanno luogo delle commemorazioni della battaglia organizzate da gruppi e sezioni dell’Associazione Nazionale Alpini.
Tra queste cerimonie, la più importante, a livello nazionale, ha luogo a fine gennaio a Brescia, presso il monumento vivente degli alpini: una grande struttura edificata nel 1983 e donata come sede della Cooperativa Sociale Nikolajewka ONLUS e della Fondazione Scuola Nikolajewka ONLUS, per erogare attività a favore delle persone con grave disabilità motoria. All’interno dell’atrio della struttura è collocata una lapide su cui è scritto “Nel 40º anniversario della battaglia di Nikolajewka nel ricordo di quanti senza odio ma senza viltà caddero combattendo per l’onore della bandiera e la salvezza dei fratelli, gli alpini bresciani hanno edificato con amore e lieta fatica questa scuola di mestieri perché a coloro che meno hanno avuto dalla sorte si schiuda un più sereno avvenire – Brescia 22 gennaio 1983”.
A Sirmione (BS) nella piazza della frazione Rovizza c’è un monumento dedicato a Nikolaevka, eretto nel 1963. Il 26 gennaio di ogni anno la mattina tutti i combattenti si ritrovano con le autorità nella piazza per la memoria.
A Soave (VR) sorge un monumento intitolato ai caduti di Nikolaevka eretto nel 2009. Soave mandò 35 giovani nella campagna di Russia, di cui uno solo tornò a casa, mentre gli altri morirono nella ritirata. Vengono commemorati Il 12 gennaio d’ogni anno. L’opera nel 2013 ha ricevuto la medaglia dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e una pure dall’allora presidente del Senato, Renato Schifani.
A Roma, sulla via Cassia all’altezza della Tomba di Nerone, sorge il “Giardino dei Caduti e Dispersi in Russia”. Ogni anno il 26 gennaio si commemorano i soldati italiani caduti nella battaglia di Nikolaevka.
Nel ricordo di Nikolaevka troviamo, fra le più note canzoni alpine, Le voci di Nikolajewka del compositore vicentino Bepi De Marzi (che nel titolo si ispira alla nota canzone Le voci di Giarabub) e una canzone del cantautore veneto Massimo Priviero, intitolata Nikolaevka; è da segnalare anche il brano: La strada del Davai, continuazione del brano precedente, e la canzone Il reduce composta dal cantautore comasco Davide Van de Sfroos.
La legge 5 maggio 2022, n. 44, istituisce il giorno 26 gennaio la Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, in ricordo della battaglia.
Nikolaevka oggi:
Oggi Nikolaevka non è più individuabile come comune, essendo stata assorbita da quello di Livenka. Giuseppe D’Amato ha raccontato in un reportage, pubblicato dal L’Eco di Bergamo nel 2003 e riedito da EuropaRussia nel 2009, questi luoghi e le sensazioni di alcuni reduci italiani venuti a visitare le zone dove avevano combattuto e dove avevano lasciato per sempre tanti loro commilitoni.
Guida d’eccezione è stato il professor Alim Morozov, che, all’interno dell’asilo costruito dall’Associazione Nazionale Alpini a Rossoš’ a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, ha costituito un museo. Il suo libro La guerra a casa mia, in italiano uscito col titolo Dalla lontana infanzia di guerra, è una testimonianza speciale sugli avvenimenti del Don.
Onorificenze:
Medaglia d’oro al valor militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d’oro al valor militare
Sottotenente Eros Da Ros, Battaglione Alpini “Verona”
Capitano Alessandro Pietro Frugoni, Battaglione Alpini “Val Chiese”
Tenente Gino Ferroni, Battaglione Alpini “Val Chiese”
Generale di Brigata Giulio Martinat, Capo di Stato Maggiore del Corpo d’Armata Alpino
Generale di Divisione Luigi Reverberi, Comandante della 2ª Divisione Alpina “Tridentina”
Esiste un Monumento tra i tanti che ricordano questa battaglia uno di questi è il Monumento Nazionale ai Caduti e Dispersi del C.S.I.R. – A.R.M.I.R. – Campagna di Russia, 1941-1943 che si trova a Roma, in Via Cassia 737 – Giardino dei Caduti e Dispersi in Russia.
Se volete andarlo a visitare ecco il link diretto su Google Map: https://goo.gl/maps/dkJVsSSXEnTe2Duj8
Riporto qualche dato di come è stato realizzato il monumento e le varie fasi di costruzione e le varie cerimonie per commemorare di Caduti che nel tempo sino ad oggi si sono svolte in quel luogo:
Il cippo realizzato con la colonna di scavo ottenuto dalla Sovraintendenza del Comune di Roma è stato inaugurato dal Sindaco Alemanno con grande solennità il 23 gennaio 2011. L’inaugurazione del Monumento Nazionale è solo uno degli atti di una storia di entusiasmo, di dedizione, di impegno e di passione che ha come protagonista il Comitato “Nikolajewka, per non dimenticare”, ma in assoluto una persona fisica, l’ispiratore e il massimo artefice di questa grande fatica, l’Artigliere Alpino Silvano Leonardi.
Questi non si è mai arreso di fronte alle difficoltà poste di fronte alla sua volontà di ricordare in modo indelebile il sacrificio dei suoi due zii scomparsi insieme ad altri novantamila che non sono più tornati da quella terribile e tragica campagna militare, cominciata con il Corpo di Spedizione Italiano in Russia nel 1941 e conclusasi nel 1943 con il ritorno dei resti dell’Armata Italiana in Russia.
Il terreno dove erigere il monumento ricordo era trovato: un piccolo appezzamento sulla Cassia, accanto al monumento a Vibio Mariano, la cosiddetta Tomba di Nerone.
Venti anni fa, la richiesta di intitolarlo come Parco dei Caduti in Russia veniva però totalmente ignorata sia dal sindaco Rutelli che dal successore Veltroni, mentre l’assessore Borgna proponeva in compenso di dedicare vie romane ad attori americani.
L’indignazione per questa proposta veniva portata alla signora Ciampi, in occasione della visita del Presidente della Repubblica in Russia: il suo intervento dette impulso allo sbloccarsi delle difficoltà burocratiche e il Prefetto Del Mese otteneva finalmente l’intitolazione del “Giardino Caduti sul Fronte Russo”, in via Cassia 737, Roma. Da allora, il Comitato Nikolajewka, sorto spontaneamente e autofinanziato, si impegnava per la sistemazione del Parco, per la posa del Monumento, per la collocazione delle Lapidi e della Campana.
Il Comitato ha realizzato anche il Labaro “Tomba di Nerone – Novantamila Elmetti di Ghiaccio” per sfilare alla Parata del 2 giugno. I protagonisti delle iniziative del Comitato sono pochi e si assottigliano per via: oltre ai benemeriti Gianluigi Iannicelli (figlio di Giorgio, Medaglia d’Oro), Basilio, Franco Frediani, Antonello Filippone, gli impegni sono a carico dell’Alpino Silvano Leonardi, del C.S.M. Matteo Bajocco, dell’Alpino Antonio Verona, dell’Alfiere Bersagliere Giorgio Loreti, dell’Alpino Renato Del Col.
Le difficoltà burocratiche di ogni genere sono state superate con costanza e con testardaggine alpina, con l’appoggio morale dei senatori Cossiga e Ciampi, di S.S. Benedetto XVI, con la disponibilità della Sovraintendenza per il dono del Cippo commemorativo, con la collaborazione per la realizzazione del Monumento del M° Antonio Lupatelli, dell’Arch. Squizzato, del dr. Werther Marini, del M° Alessandro Fragioli per i Bronzi, del M° Maurizio Mangone per l’elaborazione e donazione del manufatto, del Municipio Roma XX (dell’allora Presidente Giacomini e Consigliere Giuseppe Calendino) per l’intervento dell’Ufficio Tecnico nella bonifica dell’area.
Molta parte della popolazione del quartiere si è prodigata ad aiutare anche mediante cartoline, cartelli, medaglie, francobolli, piante, striscioni, ferri battuti; ma encomiabile è sempre stato in questi anni l’intervento del Comitato di Quartiere Cassia Grottarossa, delle associazioni di Protezione Civile, dei Carabinieri, dei Vigili Urbani, della Polizia di Stato, dei Vigili del Fuoco, della Croce Rossa Italiana, dei Finanzieri.
E naturalmente di tutte le Associazioni d’Arma che hanno in questi anni nobilitato la manifestazione con le loro presenze, i loro reduci, le loro bandiere, i loro labari, le loro medaglie. Fedele testimone delle manifestazioni di questi anni, Alessandro Andreini in passato ha ripreso fatti con la sua telecamera e ha fornito le memorie degli avvenimenti, come l’avv. Marco Fabrizio, sempre presente, che ne ha scritto i commenti. Altro personaggio encomiabile per la sua dedizione è il Cappellano, Mons. Giacomino Feminò, il quale ha celebrato le Messe al Campo in una atmosfera di severità e di commozione.
Si sono perduti, purtroppo, anni fa, due personaggi che caratterizzavano l’evento ogni anno: il grande giornalista del GR2 Augusto Giordano, sempre presente nel commentare gli eventi, e il Reduce Riccardo Riccardi che ogni anno leggeva la Preghiera del Caduto in Russia. Sono “andati avanti”, si dice in gergo alpino.
Nel 2013, purtroppo, non hanno potuto assistere alla fase conclusiva della realizzazione durata undici anni: l’apposizione della Martinella, la Campana offerta dalla Pontificia Fonderia di Agnone dai Fratelli Marinelli, che collocata nell’apposito braccio con la sigla SPQR in ferro battuto donato dalla ditta “Ferri Battuti Italiani” ha diffuso nell’aria i suoi primi dieci squillanti rintocchi a ricordo delle 10 Divisioni che hanno combattuto in terra di Russia.
Il Giardino dei Caduti e Dispersi sul Fronte Russo è completo: il cippo commemorativo sulla base dove sono inserite le targhe bronzee delle Divisioni combattenti, l’asta per l’Alzabandiera, la Campana… quello che occorre è la sorveglianza e la manutenzione per non far sì che tutte le fatiche di tutti questi anni si perdano col degrado che contraddistingue i nostri terreni verdi per la mancanza dei controlli dovuti.
Negli ultimi anni si è svolta, sempre organizzata da Comitato Nikolajewka, una solenne manifestazione di due giorni per ricordare gli avvenimenti di quel tragico periodo; sempre ogni ultimo fine settimana di gennaio.
Il Sabato pomeriggio, conferenza con proiezione di immagini e rievocazione dell’ultima drammatica battaglia di Nikolajewka,
La Domenica mattina, la via Cassia veniva chiusa al traffico per lo svolgimento della Sfilata storica di Forze Armate in servizio attivo e della Riserva, alcune nelle divise storiche: un corteo lunghissimo al quale partecipavano rappresentanti di tutte le Armi e Reduci della Campagna di Russia, purtroppo sempre in numero minore.
Dopo la sfilata, le parate dei Corpi a cavallo e la corsa del Reparto di Bersaglieri, gli inni delle Bande degli Alpini di Borbona e dei Bersaglieri in s.a., le rappresentanze militari si radunavano nel piazzaletto di fronte al Monumento dove si svolgeva la rievocazione, l’alzabandiera, il Silenzio, la Messa al Campo con lo scambio dei saluti con l’Ufficiale Superiore dell’Esercito Russo che rappresenta la pacificazione fra i due popoli.
Le celebrazioni sono sempre proseguite nel tempo e l’ultima si è celebrata in forma ridotta il 30 Gennaio 2022 a causa dele restrizioni imposte dalle norme sanitarie, la prudenza nell’evitare pericolosi contagi e, infine, il concomitante blocco della circolazione delle auto, non hanno consentito quella Domenica lo svolgimento della celebrazione del 79° Anniversario della Battaglia di Nikolajewka a Tomba di Nerone come negli anni precedenti, con banda e sfilata.
Il Comitato Nikolajewka aveva fatto sapere che la celebrazione avrebbe avuto luogo in forma ridotta, limitandosi alla deposizione della corona d’alloro da parte del drappello d’onore della Polizia Locale di Roma, alla benedizione del monumento, alla presenza del picchetto d’onore dello Stato Maggiore dell’Esercito e del Presidente del Municipio XV, con le consuete cerimonie del Silenzio, dell’Alzabandiera e dei 10 rintocchi della Martinella.
In tal modo è stata comunque mantenuta la tradizione istituita 22 anni fa da Silvano Leonardi, anziano alpino reduce del secondo conflitto mondiale, molto noto e ben voluto nel quartiere Tomba di Nerone, purtroppo deceduto nel dicembre del 2017.
EROI SENZA MEMORIA – Tutti erano fratelli
Ed ora passiamo al racconto dal fronte:
“La sera era scesa su Nikolajewka. Già tutta la colonna era entrata in paese e qua e là si accendevano dei fuochi. Sopra le isbe stagnava il fumo dei camini e dei bivacchi, l’odore del combattimento era ancora nell’aria.
Il freddo rendeva acuti i rumori ma pareva che oltre le ultime isbe e gli ultimi orti nulla più esistesse: solo il buio. Per le strade passavano in silenzio slitte e gruppi di uomini.
Sembravano ombre che uscivano dalla neve. Erano, invece, gli ultimi del Corpo d’Armata Alpino: gli sbandati, i feriti, i congelati e i generosi che si erano attardati a cercare un viso caro o noto tra quelli rimasti sul campo di battaglia.
Un sergente dei conducenti andava affannosamente da una strada a un’altra, da isba a isba, da un gruppo di ombre a un altro e a tutti chiedeva: – Di che reparto siete? Di quale reparto?
Durante tutto il giorno aveva corso lungo la colonna a cercare munizioni per quelli della sua compagnia che combattevano per aprire la strada. Le aveva anche portate al mitragliatore che sparava dalla scarpata della ferrovia e verso il tramonto, quando il Generale aveva ordinato: “Tridentina avanti!” alla testa dei suoi pochi conducenti aveva inastato la baionetta gridando: “Sconci, avanti!”.
Ora non era a riposare accanto ad un fuoco ma affannosamente chiedeva a tutti: – DI che reparto siete?
– Del Tirano, rispondevano. – Del Morbegno. – Del Gruppo Bergamo. – Del Verona. – Della Julia. O anche si sentiva gridare: “‘raus Italiener!”. Trovò anche gli amici della sua compagnia che gli chiesero: – Dove vai? Che cosa cerchi? Vieni qui con noi.
Finalmente si sentì rispondere: – Valchiese! – Di quale compagnia? domandò. – Della tre – E quelli della cinque? – Guarda in quella stalla; forse saranno lì.
Stavano silenziosi attorno a un piccolo fuoco. Alcuni, accucciati, dormivano; uno fasciava il braccio di un compagno con una ventriera; una altro scioglieva della neve nel coperchio della gavetta.
– Siete della cinque del Valchiese? – domandò. – Siete di Cologne?
– Della cinque del Valchiese. – risposero. – Chi cerchi?
– Mio fratello Giuseppe. Ditemi dov’è.
Ora, vicino al fuoco, lo riconobbero. Altre volte lo avevo visto alla compagnia quando veniva a salutare il fratello e i paesani; portava sempre sigarette e anche vino.
– Lui è del suo plotone, – disse quello che stava liquefacendo la neve. – Ma è ferito. È quello sulla paglia.
Il sergente dei conducenti si chinò sul ferito e chiamò: – Paesano, paesano – toccandolo leggermente sulla spalla. Il ferito aprì gli occhi lamentandosi e lo riconobbe: – Ahi, – disse – ahi… Tuo fratello è rimasto ferito stamattina… verso la ferrovia. L’ho visto che sanguinava dal mento… Era vicino al casello quando siamo scesi la seconda volta… Datemi acqua…
Uscì di corsa, senza parlare. Attraversò il paese, gli ultimi orti e incominciò a chiamare. Dei gemiti gli risposero, poi altri ancora e non sapeva dove andare. Delle cose oscure, immobili, si intravedevano sulla neve.
Sopra il cielo era buio e profondo, dietro v’era il paese con i fuochi e innanzi il nulla e questi gemiti. Si avvicinò a un’ombra sulla neve, stette un poco sospeso; si levò i guanti e si inginocchiò accanto. Era una cosa fredda come la neve, rigida come il ghiaccio.
Si rialzò e camminò oltre… Sì, questo si lamentava. È vivo! Gli sollevò la testa. Cercava di riconoscere i lineamenti di quel viso. – Oh… portami via. Portami via… oh… fai piano… le gambe… piano.
Se lo caricò sulle spalle e lo portò nelle prime isbe. Per tutta la notte, senza aver conoscenza del tempo né della fatica, per tutta la notte, chiamando suo fratello Giuseppe, portò i feriti nelle isbe di Nikolajewka.
Per tutta la notte dal casello della ferrovia e dal terrapieno, e poi da più lontano, a destra e a sinistra, oltre la scarpata e verso il viadotto, inciampando nella neve, barcollando, cadendo, senza guanti e senza passamontagna.
Scrutava nel buio il viso dei morti pulendoli dalla neve, ascoltava i gemiti dei feriti e li portava giù nel paese perché ognuno era ormai suo fratello. Per tutta la notte dal 26 al 27 gennaio 1943 a Nikolajewka, in Russia, finché venne l’alba. Ormai brancolava come un ubriaco e con gli occhi semichiusi e fissi vedeva come in sogno Cologne, in provincia di Brescia, Italia.
Finché i suoi conducenti lo misero su una slitta con i feriti per riprendere la strada verso Ovest.
Reverberi
…….Nel ’44 i Russi entrarono in Polonia e in un campo di concentramento trovarono il generale Reverberi. Il comandante di un’Armata russa lo mandò a chiamare.
“È lei”, disse, “il comandante della famosa Tridentina?”.
“Sì, generale. Perché?”.
“È stata l’unica divisione del settore Centro-Sud che ci è sfuggita. Volevo conoscere il comandante”.
“No”, rettificò Reverberi, “non vi è sfuggita. È stata l’unica che non siete riusciti a battere”.
… l’unica che non siete riusciti a battere.
Ricordo le parole che il generale Reverberi mi disse qualche tempo prima di morire. Ma quanto ci è costato? Qualcuno ci aveva detto di andare oltre ma il nostro cuore ci ha portati qua. Si avanzava per andare a baita. Allora sì che abbiamo lottato per la nostra Italia, per le nostre valli, i nostri campi, le nostre donne.
Ci hanno detto che fummo meravigliosi. Forse sarà vero ma una lunga strada è stata segnata: ossa, zaini, scarponi, armi e sangue. Ora su queste cose il vento dondola i grani.
Fratelli alpini
Camminavamo, da forse due ore, nel gelido mattino del 25 gennaio 1943 in una foresta di alte conifere dove si era occultati dall’aviazione nemica, ma dove i russi, partigiani e regolari, si accanivano contro la colonna; ed il procedere verso ovest aveva come prezzo una continua scaramuccia sui fianchi ed in retroguardia.
Mi trovavo di retroguardia, bisognava star sotto per non esse tagliati fuori e le munizioni si bruciavano con facilità: così continuava uno stillicidio nostro e russo.
Gli alpini caduti rimanevano insepolti e noi li guardavamo sentendoci in colpa. Nulla però in quel momento potevamo fare. I vivi sapevano che cadendo nulla gli altri potevano fare per loro.
Si recuperavano i feriti mandandoli avanti nel nucleo centrale della colonna dove c’era, forse, più modo per salvarli.
Da poco era finita una scaramuccia in coda alla colonna ed io procedevo tra gli ultimi. Tre alpini solo erano alle mie spalle. Vedo in quel momento un alpino che, in ginocchio vicino ad un caduto, soffre lacrimando in silenzio. Chiedo avanti e mi dicono che è il fratello e non lo vuole lasciare.
Comprendo immediatamente che non c’è tempo da perdere: esitare pochi minuti in più vuol dire morti o prigionieri. Bisogna portarlo via ad ogni costo, anche se sembra disumano strappare un fratello da un fratello.
Mi avvicino deciso come se sapessi tutto, per non perdere tempo, e gli dico: “Coraggio! Non c’è più tempo da perdere! Bisogna andare avanti!”. Mi guarda e con un singhiozzo represso mi dice: “È mio fratello, non posso lasciarlo”.
– Andiamo, cadrai prigioniero e non risolvi niente, capisco il tuo dolore, tu almeno devi tornare…
Era una medaglia d’argento della guerra d’Africa!!!!
Questa frase svelò maggiormente il suo intimo dramma. Non credeva che il valoroso fratello maggiore nel quale riponeva ogni fiducia, tutta la sua sicurezza, potesse cadere. Non poteva ammetterlo, non poteva lasciarlo senza sentirsi solo.
Ci misi tutto il calore possibile e usai tutta la mia forza per metterlo in piedi e trascinarlo via sottobraccio.
Camminammo per un poco, ripresero i colpi delle armi e loro e nostre, che avevano suoni
L’ultima galletta dell’alpino Moioli
Gennaio 1943, linea del Don. I russi investono i capisaldi dell’Edolo. Fuoco micidiale, violentissimo. Scenario bianco, livido, ribollente di scoppi. Alpini abbarbicati al ghiaccio delle postazioni, come radici di pianta avvinghiate alla terra. Sul nastro del fiume, gremito di russi, picchiano secchi i mortai da 81. Mietono a man salva le Breda scagliando folate di pallottole. Ma sempre nuove ondate irrompono dalle trincee, e si ricompone l’immenso formicolio di uomini che sguscia in rigagnoli neri tra le pieghe della coltre nevosa. Quelli che riescono a passare il braccio del fiume, scampando ai crateri dei mortai si fanno sotto; e strisciano, invisibili, schiacciandosi fin dentro la neve, arandola col corpo. Ma i nostri mitragliatori formano sotto i reticolati una barriera imperforabile. Qui si esaurisce lo sforzo dei russi per quanto fitti reparti mandino al massacro. Non uno giunge salvo alle nostre trincee.
La notte è un inferno. Vampate di luce sinistra squarciano il buio. Pallottole traccianti segano l’aria con scie incandescenti: dritte, tese, velocissime. E appena il fuoco si placa, dilaga il lugubre urlare dei feriti che spacca il cuore e riempie di orrore la tenebra.
In uno di questi momenti di tensione angosciosa, intravvedo nel buio il sergente Saltori. Veterano del fronte occidentale e d’Albania, ha la pelle dura e il fegato corazzato. Lo agguanto e lo aspiro di prepotenza nella mia buca: “Qua, vecchio lupo. Dimmi cosa ti pare, tu che ne hai viste di tutti i colori”. La risposta è introdotta da una pacca affettuosa che quasi mi demolisce: “Sta tranquillo, Bozzini. Se i russi passano io mangio una bomba a mano. Alpini così non li ho mai neppure sognati”. E mi racconta di Moioli che, cinquanta passi più a destra, gli ha fatto strabuzzare gli occhi per l’incredibile ardimento. Allo scoperto sotto i reticolati, incollato al mitragliatore giorno e notte. Non sente il freddo, la fame, la stanchezza.
Non vuole il cambio…. MAI.…Il capo-arma, accucciato vicino a lui, infila caricatori su caricatori. Moioli spara con la destra. Nella sinistra tiene la sigaretta accesa, e fuma, imperturbabile, come fosse in un’osteria a giocare a briscola; e infila i russi ch’è un castigo di Dio.
E quel pazzo di Maccarana! Ogni tanto si sporge a gridare le più sconce insolenze ai russi che attaccano, inframmezzandole con il ritornello: “Vieni qui, che te la do io la pastasciutta!”.
Il 17 gennaio: i russi desistono e l’arroventato duello finisce. Neanche un palmo di terra è stato perduto. Ma alle quattro pomeridiane, ecco la folgore a cielo sereno: ordine di ripiegamento! Altrove il fronte ha ceduto e siamo accerchiati.
All’alba del 19 si riprende la marcia. Un rogo immane spande nella neve riverberi di luce rossa, sanguigna: in Podgornòje abbandonata le fiamme divorano comandi, depositi, magazzini. La bufera si è placata. L’aria è limpida e immobile, il freddo polare. Nella distesa bianca si snoda l’interminabile colonna di Alpini: piccoli uomini, che vanno allo sbaraglio contro la trappola gigantesca che si è chiusa ermeticamente d’ogni parte. Inizia così la folle avventura che avrà come campo di azione gli squallidi ghiacci della steppa, dove tramano insidie mortali l’inverno e i russi.
Io e Moioli sostiamo in un’isba per far sgelare una galletta. Altri hanno compiuto la stessa operazione prima di noi e la stufa è accesa. Improvvisamente notiamo che la colonna si è fermata. Mi corre un brivido freddo lungo le ossa. Vuol dire che il cammino è sbarrato dai russi: ora bisogna sfondare; e tocca a noi aprire la breccia, perché l’Edolo è il battaglione di testa.
Mentre osservavo le fiamme calde, amiche, levarsi nel gran braciere della stufa, mentre sentivo la galletta ammollirsi nelle mie mani, già ero deciso a restarmene in quella provvida isba dove il caso mi aveva portato; e già una maligna riflessione si faceva strada nel mio cervello con la perfidia dei sottili allettamenti: “Questa volta almeno, la pelle è al sicuro”. E mi pareva più dolce il tepore, goduto a spese di chi andava al macello per aprire la strada verso la Patria e la casa.
Quando staccai lo sguardo dalla stufa, mi accorsi che gli occhi di Moioli mi fissavano intensamente: erano lucidi, accesi, ansiosi; certo egli attendeva da me l’esempio e l’ordine di correre subito dove gli altri sfidavano la morte anche per noi. Ma la mia bocca restò chiusa.
Per un istante ci fu silenzio nell’isba. Non si udiva che lo scoppiettio del fuoco, e fuori, il trepestare dei conducenti e dei muli arenati nel mare di neve.
Poi Moioli disse: “Io vado”. Afferrò il mitragliatore deposto in un angolo, diede un morso alla galletta, s’incamminò nella neve. Andai con lui. Arrivammo giusto in tempo per scattare all’attacco con il nostro plotone.
Mezz’ora dopo, Moioli non c’era più. Nel corso del combattimento, una cannonata lo aveva centrato in pieno: e s’era come dissolto in una fiammata di gloria.
Quando calò la notte sulla distesa di morti, e io spasimavo per la mia gamba ferita, mi venne istintivo rimpiangere il pasto interrotto nell’isba calda e sicura. Allora, sullo sfondo dell’aria buia, rividi lo sguardo di Moioli: intenso, vivo, ardente; e di fronte a lui, ragazzo di vent’anni, che era andato alla morte senza battere ciglio, con un boccone di galletta nello stomaco e un cuore gigante, ebbi vergogna di me stesso.
Gli sciatori della morte
Da soli contro i carri armati russi
Quella del “Battaglione Cervino”
è la storia più incredibile e commovente dell’ultima guerra mondiale
Nessuno potrà mai raccontare tutta la storia del “Battaglione Cervino”, due volte formato e due volte distrutto nell’ultima guerra. L’ottanta per cento di questi alpini è sottoterra in Albania e in Russia: e ognuno custodisce un pezzo di storia che non ha fatto in tempo a raccontare e che non ha testimoni perché gran parte degli alpini morirono da soli.
Questo reparto oggi non esiste più. Il suo nome è diventato una leggenda di cui parlano i vecchi marescialli nelle caserme: erano tutti campioni di sci e di roccia, dal primo all’ultimo, compresi il medico e il cappellano; erano volontari e tutti scapoli, condizione prima per essere accettati; e ciascun alpino, raccontano i vecchi marescialli con gran stupore, aveva due paia di scarpe Vibram per sé.
Racconteremo ora la storia del battaglione “Cervino”, ma avvertiamo che non è tutta qui.
Nel 1940 c’era ad Aosta – e c’è tuttora – l’università degli alpini, la “Scuola centrale militare di alpinismo” ammirata da tutti gli Stati Maggiori del mondo, dalla quale uscivano i migliori combattenti di montagna. La scuola aveva messo in linea, per il fronte occidentale, un meraviglioso battaglione, il “Duca degli Abruzzi”, che poi fu sciolto proprio il giorno in cui si attaccò la Grecia: 28 ottobre 1940.
Dopo l’ordine di scioglimento, ecco, sotto Natale, il controordine: costituire un battaglione come quello di prima, tutto di soldati d’eccezione, tutto di scapoli, e mandarlo al più presto in Albania. Il maggiore Gustavo Zanelli, comandante del reparto, attaccò un cartello alla porta dell’ufficio: “Battaglione Alpino Sciatori Monte Cervino” e per quel giorno il reparto ebbe in forza tre uomini: il Comandante, l’Aiutante Maggiore Tenente Astorri e il Tenente Scagno.
Il 21 gennaio 1941 il “Cervino” aveva già i primi morti in Albania: alpini uccisi dalla mitragliatrice o dal mortaio con le scarpe ancora nuove, senza aver visto l’Albania alla luce del sole. A Durazzo erano passati dalla nave ai camion che li avevano portati a Tepeleni, donde, a piedi, avevano raggiunto subito la posizione assegnata sui Trebescini, a Dragoti, all’alba erano già uscite le pattuglie e alcuni alpini erano morti prima che a casa loro arrivasse la cartolina spedita da Bari.
Il Battaglione aveva 340 uomini su due compagnie, più un plotone comando. Armamento: moschetti, fucili mitragliatori e una mitragliatrice per plotone. La posizione assegnata al “Cervino” era un punto allora sguarnito, alla congiunzione di due grandi unità. Contro questo punto debole si scatenava lo sforzo del nemico e per tre giorni il “Cervino” combatté senza viveri.
Ecco il resoconto di un ufficiale superstite, il Tenente Cossard: “Non facemmo a tempo a conoscere i nostri uomini: quando si cercò di riassumere i fatti per iscritto, solo eccezionalmente fu possibile dare un nome all’alpino che avevamo visto cadere accanto a noi”.
Nei primi giorni le compagnie furono subito decapitate: uccisi i due comandanti, Brillarelli e Mautino, ucciso poi l’aiutante maggiore Astorri che aveva piantato il comando ed era uscito con una pattuglia. Il battaglione non seppe mai che cosa fossero i cambi, i turni di riposo, il rancio caldo: per tutto un mese durò la sua battaglia, combattuta per plotoni e e per squadre, davanti al nemico oppure alle sue spalle aggregati ora a questa ora a quella divisione di fanteria, spesso senza collegamenti, cosicché le più gravi decisioni le pigliavano talvolta i caporali.
Tutta la Undicesima Armata conobbe presto quei meravigliosi soldati dalla nappina azzurra, i “Cervinotti” che non andavano mai a riposo e che lasciarono l’Albania soltanto quando restarono in sessanta, col comandante Anelli ed alcuni ufficiali feriti all’ospedale e gli altri sottoterra.
Per alcuni giorni il comando del battaglione fu tenuto da due Sottotenenti. Un’altra volta un sottufficiale, Giacomo Chiara da Alagna Sesia, alto due metri, si trovò ad essere il più elevato di grado del “Cervino” mentre i greci attaccavano i resti del battaglione dopo un fuoco infernale di artiglieria.
Chiara restò accovacciato al riparo fino al momento in cui il nemico scattò all’attacco; quando sentì l’alto grido dei greci, saltò sul punto più alto della trincea, dritto in piedi, colossale, col mitragliatore imbracciato come un fuciletto da ragazzi, e prese subito a sparare e sparare, cambiando l’arma, sempre eretto in tutti i suoi due metri in mezzo alle pallottole, solo davanti al nemico, tranquillo, preciso, invulnerabile.
Discese soltanto quando il nemico tornò indietro, e tutti gli alpini gli saltarono addosso ridendo e piangendo per toccarlo; era proprio incolume, non un graffio, voleva soltanto bere. Quando i superstiti tornarono ad Aosta, le stesse scene; tutti volevano vedere e toccare Chiara, promosso aiutante di battaglia; quando entrava in una camerata di reclute, tutti si mettevano sull’attenti e quando usciva gli andavano dietro come in processione.
Giacomo Chiara, incolume nell’inferno di Albania, è morto dopo la guerra sul Monte Rosa, in una disgrazia stupida, come dicono gli alpinisti. È precipitato, chissà dove, nessuno l’ha più visto, non ha una tomba.
Un mese dopo il suo arrivo in Albania, il “Cervino” non esisteva più; aveva combattuto una sola battaglia, dal primo all’ultimo giorno senza appoggio di artiglieria, senza poter comunicare e tanto meno segnalare gli atti di eroismo.
In primavera il maggiore Salomone, nuovo comandante, riportò in Italia sessanta uomini. Il “Cervino” era tutto lì. C’era il sottufficiale Maltempi di Domodossola, con una gamba in meno; c’era il medico Lincio, ferito anche lui, ma recuperato prima che cadesse in mano al nemico. Il battaglione fu ufficialmente sciolto, ma nel novembre 1941 arrivò l’ordine di ricostituirlo.
Tra i primi a presentarsi ecco il tenente medico Lincio appena guarito. Dopo l’Albania seguirà il suo battaglione dove vorranno i superiori comandi. Un altro medico suo amico vuol seguirlo ma ha un piede malato. Per non andare all’ospedale si opera da sé, in treno. Fu così che il Tenente medico Reginato partì per la Russia con un dito in meno, per restarci dieci anni.
Novembre 1941:
un altro cartello sulla porta di un ufficio: “Battaglione Alpini Sciatori Monte Cervino”. Dentro l’ufficio c’è il tenente colonnello lombardo Mario D’Adda. Da bambino saltellò sulle ginocchia di Edmondo De Amicis, da sottotenente comandò i resti di un battaglione che scendevano straziati dall’Ortigara ed ebbe un rimprovero perché le uniformi erano in disordine!!!!!!!
Ha un gran naso e una faccia strafottente: tra migliaia di volontari sceglie uno per uno gli alpini per il “Cervino” (la vecchia regola, tutti assi dello sci, tutti scapoli, tutti informati di quel che aspetta il battaglione, dovunque vada).
Destinazione? Finlandia, si dice. D’Adda pianta ai superiori comandi una grana colossale inaudita: gli alpini del mio battaglione sarenno equipaggiati come voglio io e il regolamento può volare fuori dalla finestra a Roma finiscono per dargli ragione cosicché in tutto l’esercito si spargono notizie favolose: gli alpini del “Cervino” hanno due paia di scarpe Vibram a testa, giubbe con pellicciotti preparati su misura da una ditta che veste le dive del cinema; tende polari, un binocolo prismatico da generale per ogni comandante di squadra, maglie termiche, predule da riposo, moschetti automatici; tutto fuori ordinanza, tutto contro i regolamenti.
Il “Cervino” ebbe ancora due compagnie di sciatori, cui si aggiunse una compagnia A.A. (armi di accompagnamento); la sua forza raggiunse i seicento uomini. Invece della Finlandia la destinazione era in Russia; per i soldati della montagna era stata scelta la pianura del Don.
La vita in Russia del battaglione durò esattamente dodici mesi: il primo combattimento ha la data del 22 marzo 1942 a 32° sotto zero sul fronte di Ploski ; ultimo combattimento, coi resti del reparto, il 22 gennaio 1943, a Olikowatka. Da seicento che erano, tornarono in settanta.
In un anno il “Cervino” fu sbattuto di qua e di là, quasi sempre per via ordinaria. Via ordinaria voleva dire a piedi. Combatté da solo, con la “Julia”, con divisioni tedesche, col raggruppamento Barbò; operò al completo, come battaglione, e frantumato in decine di pattuglie. Ed anche sull’immenso fronte russo si sparse larghissima la fama del “Cervino”, vennero generali tedeschi a portare manciate di croci di ferro ed il bollettino germanico citò il battaglione nell’ordine del giorno.
Ecco quel che raccontano alcuni superstiti. Il 18 maggio 1942 c’è l’ordine di occupare il villaggio di Klinowy. Ordine eseguito, villaggio occupato, quand’ecco due reggimenti russi attaccano nel paese il “Cervino” col proposito di rioccupare Klinowy e di travolgere poi la linea di partenza del “Cervino”. Due reggimenti, diciamo, di fronte ad essi. D’Adda fa ripiegare il battaglione fino a un punto stabilito da lui, ferma i russi prima della nostra linea e duo giorni dopo, con un balzo rabbioso, riparte all’attacco e riprende il villaggio.
Non un uomo è caduto vivo in mano al nemico. Il Tenente Frascoli non c’è restato nemmeno da morto…………………
Mentre il battaglione si ritirava combattendo, il suo attendente Domenico Caspani da Sondrio, vide l’ufficiale cadere morto e tornò indietro, verso i russi che avanzavano, per portarlo via.
Si prese il corpo inanimato sulla spalla e corse per riunirsi ai compagni; ma i russi stavano per raggiungerlo, ed allora l’alpino Caspani posò a terra la salma, si voltò verso di loro e cominciò a sparare, fermandoli per un momento; poi si caricò un’altra volta il tenente e ripartì di corsa. Ancora i russi addosso, altra sosta, altro caricatore sparato, e via di nuovo; e un’altra volta ancora e due e tre volte, finché Caspani poté deporre il suo tenente morto fra le nostre linee e ripulirgli la faccia insanguinata e pettinarlo per l’ultima volta, come se fosse suo figlio.
Anche qui, come in Albania, ci sono i morti di cui non si sa niente: uccisi dal parabellum o dalla katiuscia mentre erano soli nel deserto gelato, caduti con le loro tute candide sulla neve, bianco su bianco, e così spariti.
Quando a dicembre i russi scatenano la loro tremenda offensiva, il “Cervino” si trova a fianco della “Julia” a condividerne il martirio.
Il 22 dicembre irrompono in una falla i russi, fanteria e carri. A contrastarli arrivano i carri tedeschi. Si potrebbe star fermi e fare il tfo. Invece il tenente Sacchi dà un grido: “Cervino!!”, si toglie gli sci e balza sul primo carro tedesco, quello che è già in mezzo ai russi: tutti gli alpini fanno lo stesso; su ogni carro compare un grappolo di scatenati in tuta bianca che sparano raffiche, lanciano bombe, disperdono la fanteria nemica cosicché i carri della stella rossa ripiegano. I tedeschi saltano fuori dai loro panzer a fare le congratulazioni, ma Sacchi non c’è più: bisogna andarlo a cercare, morto, nella neve sporca.
Adesso non si riposa più, fino alla fine.
Il giorno di San Silvestro del 1942, ecco ancora i carri russi e stavolta gli alpini sono soli con le loro povere armi contro i mostri d’acciaio.
Scrivono un nuovo capitolo di tattica militare: attacco di alpini sciatori contro carri armati pesanti. “Cervino!!” si grida, ed i piccoli uomini bianchi danno addosso ai carri armati, incendiandoli con bottiglie di benzina, lanciando a grappoli le loro bombe a mano, colpendo i cingoli con tutte le armi.
Gabrieli Angelo, caporal maggiore di Rocca Pietore, comanda un cannone anticarro: vengono sotto i russi e Gabrieli è ferito, ma continua a sparare: un carro è fermato per sempre, gli altri tornano indietro. Gabrieli non si muove; sa che torneranno, e infatti eccoli.
“Via tutti” ordina il caporale ai serventi e resta lì solo, col suo povero cannone puntato. Uno dei giganti corazzati punta verso di lui. “Spara!” gli gridano di lontano. Gabrieli aspetta, vuol colpirlo ai cingoli, vuole averlo vicino.
Lascia che avanzi ancora, a pochi metri, poi fa fuoco. Il colpo ha spezzato un cingolo, ma il carro era troppo vicino, per forza d’inerzia fa ancora qualche metro, viene addosso a Gabrieli sanguinante, ed il caporal maggiore di Rocca Pietore, presso Agordo, è schiacciato col suo pezzo sotto il carro, dal quale esce a mani alzate l’equipaggio.
22 gennaio 1943
Settantacinque uomini, quelli che restano del battaglione “Cervino”, ingaggiato l’ultimo combattimento, sparando con armi italiane, tedesche, russe, ribate o catturate. Per l’ultima volta la tenaglia nemica si chiude su di loro per inchiodarli definitivamente in Russia.
Per l’ultima volta qualcuno grida il motto del battaglione: “Pistaa!” ed il cerchio è ancora rotto; i resti del “Cervino”, col triangoletto di stoffa verde che è l’insegna del battaglione, escono armati dalla cerchia e, sempre per via ordinaria, si mettono in salvo a Karkhov.
La campagna di Russia ha meritato al “Cervino”, unico fra i battaglioni dell’Esercito Italiano, la medaglia d’Oro e medaglie d’Oro e d’Argento ebbero ufficiali e soldati, in gran parte alla memoria. Il novanta per cento degli ufficilai sono morti sul campo; il cappellano Don Casagrande è morto di fame, Reginato ha cominciato la sua peregrinazione tra i campi di prigionia.
Proporzionalmente alla sua forza effettiva, il “Cervino” è forse il reparto che ha avuto più decorati: due medaglie d’argento a D’Adda (oggi generale a riposo), due al capitano Lamberti, che comandò interinalmente il battaglione, due a un caporale, il veneto Tavcar, due al medico Lincio, e non si possono qui citare tutti.
Quando i superstiti del “Cervino” si riuniscono oggi, basta poco spazio a contenerli tutti. Ed ogni volta essi tentano di ricostruire l’intera storia del battaglione.
Quelli di Albania chiedono al maggiore Zanelli di raccontare come fu ferito; e quelli di Russia invitano D’Adda a ripetere quel suo colloquio per radiotelefono (“passo”, “chiudo”) con un generale che, da molto distante, gli dava ordini pazzeschi. E D’Adda coprì dapprima il generale di contumelie, poi fracassò la radio a colpi di pistola. E il generale, da distante, zitto.
EROI SENZA MEMORIA – Tutti erano fratelli
Termina qui il nuovo appuntamento con questa rubrica dedicata agli Eroi senza memoria. Se avete piacere di condividerlo potrete farlo cliccando sugli appositi pulsanti di condivisione e se avete apprezzato quest’opera di ricerca nella memoria storica del nostro Paese potrete commentare nello spazio dedicato ai commenti in fondo all’articolo ed io vi risponderò. Una Vostra gradita testimonianza sarà preziosa per la diffusione di questa rubrica.
Vi invito a tornare su questo Blog con il prossimo appuntamento con “EROI SENZA MEMORIA – Tutti erano fratelli http://www.alessandrolopez.it
Se vi siete persi l’articolo precedente cliccando su questo link potrete leggerlo: https://www.alessandrolopez.it/2022/05/eroi-senza-memoria-julia-20-gennaio-il-massacro/
CREDO E VINCO! con la mano sul cuore…
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Più che un blog ,questa è una vera lezione di storia.
La collaborazione con tenente Rossi ha dato il la ad un filone che divulga (in modo davvero approfondito) pagine di storia remota .
Grazie Davide troppo buono. Continua a seguire il blog.